I Longobardi a tavola

L'Archimagira Cariperga e il suo angolo della cucina.

L’Archimagira Cariperga e il suo angolo della cucina.

Gettare un colpo d’occhio su quello che mangiavano i Longobardi non è un’impresa facile, specialmente nel Sud Italia: questo perché, rispetto al periodo romano e a quello del Basso Medioevo, le fonti sono poche.
Abbiamo due modi per scoprire cosa ci fosse sulle tavole dei nostri antenati dell’area salernitana: i documenti scritti e i reperti archeologici. I documenti d’archivio permettono uno sguardo “dall’alto”, dato che si tratta spesso di trattati di gestione territoriale e di amministrazione delle terre dei grandi signori o del clero; i reperti archeologici ci consentono un contatto più diretto anche con la cosiddetta “gente comune”, ma hanno il difetto di essere molto più rari, almeno per l’Alto Medioevo; esiste però un’altra via che consente di integrare le altre due, quella della sperimentazione e dell’indagine sulle tradizioni locali, che spesso hanno origini molto antiche.
A ingarbugliare ancora di più le cose sta il fatto che il Sud Italia è un calderone dove, tra il VI e l’XI secolo, si sono incontrate e mescolate popolazioni provenienti dalle regioni più diverse: all’elemento ellenistico-romano già presente sul posto si è aggiunto quello Longobardo, popolo migrante proveniente dal Nord, e poi gli Arabi che importano dall’altra parte del Mediterraneo abitudini nuove come quella del consumo degli agrumi, già presenti in età romana ma usati probabilmente come piante ornamentali. Forse non a caso c’è una forte similitudine tra divinità longobarde come Freja che presiedono alla casa, alla fertilità e al cibo, e il culto della Vergine Maria, che nella Piana del Sele aveva in qualche modo assorbito gli attributi di Hera Argiva, molto venerata in quelle zone nell’Antichità.
Possiamo tentare di gettare uno sguardo su questo coacervo di gusti e di tradizioni diverse attraverso testi come il Capitulare de Villis, emanato da Carlo Magno per disciplinare le terre appartenenti direttamente a lui, e trovare sia materie prime mediterranee sia nordeuropee.
Dobbiamo però considerare un fatto poco noto: dal VI secolo alla metà dell’VIII secolo d.C. si è avuta quella che gli studiosi chiamano “la piccola era glaciale”, quasi tre secoli di clima rigido che hanno destabilizzato la vegetazione. Con il rialzarsi delle temperature, ci si trova di fronte alla necessità di avere sempre del cibo disponibile ad ogni stagione, e dunque si intensificarono colture adatte anche a terreni meno ospitali come il miglio o l’avena.

Cereali e legumi - a cura di Cariperga.

Cereali e legumi – a cura di Cariperga.

Dalla Regola di San Benedetto vediamo come il Medioevo abbia conservato i tre pasti principali della tradizione romana: lo ientaculum di primo mattino, che nei monasteri si sta cominciando a chiamare “colazione” perché durante questo breve pasto si leggono le Collationes di Cassiano; poi c’è uno spuntino verso mezzogiorno, e il pasto principale la sera verso le sei.
La base dell’alimentazione, soprattutto dei ceti medio-bassi, sono le zuppe di cereali e legumi, e polente di cereali come la puls di origine romana, a base di orzo cotto nel latte di capra. Mancano patate e pomodori (venuti molti secoli più tardi dall’America), ma sono abbondantemente sostituiti da lenticchie, fave e piselli, che si possono mangiare sotto forma di zuppa o di purea o di condimento per accompagnare le carni. Altro elemento essenziale della dieta già del Sud Italia dell’Antichità sono ortaggi e verdure di cui soprattutto la Campania felix è sempre stata ricchissima.  Broccoli e cipolle sono tra le verdure più apprezzate, base di molte ricette di zuppe; molto presenti tra i pollini rinvenuti sono invece quelli di carote e finocchi; diffusissime ben più di oggi sono le erbe selvatiche come la borraggine, la piantaggine, il tarassaco, la cicoria, o la malva, la cui zuppa era stata per i Romani l’emblema stesso della sobrietà.

Macellaio - miniatura dal

Macellaio – miniatura dal “De Universo” di Rabano Mauro – Montecassino, X-XI sec.

Altro alimento base della dieta altomedievale, con le dovute differenze a seconda delle classi sociali, è la carne: soprattutto quella del maiale, l’unico animale ad essere allevato solo per la carne e considerato dai Longobardi il metro di ricchezza di una famiglia, ma anche pollame e volatili. Sulle tavole dei ricchi, talvolta compaiono anche cigni e pavoni, come anche la cacciagione: cinghiali, cervi, lepri, ecc., e uccelli come gru, passeri, beccafichi, tordi, tortore, pernici. I Longobardi importano nel Sud Italia gli insaccati speziati a base di carne di maiale come la salsiccia al coriandolo, ottima per la conservazione.
Molto frequente anche il pesce per i numerosi giorni di magro previsti dal calendario liturgico: le grandi ville di campagna e anche i monasteri hanno un proprio vivaio. Tra i pesci di mare, in particolare sulla Costa di Amalfi, si fa un gran consumo di alici (fresche, salate, marinate o trasformate in colatura), ma è possibile imbattersi perfino in… squali, come quelli i cui resti sono stati trovati nelle discariche del monastero di San Vincenzo al Volturno, in Molise.

Rebecca e Giacobbe preparano da mangiare per Isacco - miniatura dal Pentateuco di Tours, Roma, VII sec. - Parigi, BnF.

Rebecca e Giacobbe preparano da mangiare per Isacco – miniatura dal Pentateuco di Tours, Roma, VII sec. – Parigi, BnF.

Per quanto riguarda il modo di cucinare, gli arrosti di animali interi sullo spiedo sono molto rari: si preferisce il bollito o gli spezzatini cotti in umido e conditi con salse speziate, perlopiù a base di vino. Molto spesso gli scarti del maiale vengono aggiunti alla cicoria o ad altre erbe all’interno di minestre che ricordano molto la “minestra maritata”, la minestra di Pasqua per eccellenza della tradizione napoletana. La cottura è effettuata su grandi piani fatti di pietra con diversi fuochi, con cui vengono messi a contatto i vari recipienti.
La sapidità non è data tanto dal sale, merce pregiata, ma dal lardo, dallo strutto, e soprattutto dal garum, salsa a base di pesce fermentato molto usata soprattutto per i fondi di cottura, diffusissimo nel mondo romano ma ancora ampiamente utilizzato fin nel IX secolo. Nonostante l’introduzione dello strutto, l’olio d’oliva è insito nella tradizione greco-romana e dunque molto usato. E non dimentichiamo l’uso abbondante delle spezie, che non servono a coprire il sapore di alimenti non gradevoli come spesso si pensa, ma ad arricchirne il sapore o a cambiarlo: i ricchi fanno impiego delle spezie rare e costose che vengono dall’Oriente come cannella, pepe, cumino, zafferano, la popolazione utilizza erbe più “comuni” come il timo, il rosmarino, il finocchio, la maggiorana o il rafano, importato quest’ultimo proprio dai Longobardi.
Ben note sono le focacce farcite o imbottite (pinsae), molto simili alle pizze di oggi, nonché pasticci vari di carne e uova.

Angolo della cucina - a cura di Cariperga.

Angolo della cucina – a cura di Cariperga.

Il dolce è costituito in massima parte da frutta: soprattutto mele, pere, ciliegie, fichi, sorbe e nespole, queste ultime molto più diffuse allora di oggi. Non dobbiamo immaginare però i grandi pomi oggi sulle nostre tavole: la frutta altomedievale è molto più piccola rispetto a quella attuale. La si mangia fresca o cotta, condita col miele, praticamente l’unico dolcificante allora a disposizione. Si fanno anche confetture di fichi e mele cotogne, fin dall’Antichità.
Altra presenza costante è la frutta secca (nocciole e castagne in particolare), che costituiscono una importante fonte energetica e sono presenza costante nei reperti archeobotanici. È una risorsa preziosa nei tempi di carestia, con la farina delle castagne si fa il pane quando manca il grano. Oltre alla frutta secca autoctona, c’è anche quella importata, come i datteri.
Si fanno frittelle, focacce di fichi secchi e uva passa, “budini” a base di orzo e latte di mandorle.

Vasellame da mensa - a cura di Cariperga.

Vasellame da mensa – a cura di Cariperga.

In quanto alle bevande, come in epoca romana, la parte del leone la fa il vino, bianco o rosso, bevuto freddo o caldo; il più delle volte il suo sapore è arricchito da miele e aromi come la cannella, la noce moscata e i chiodi di garofano. Molto apprezzati sono vini particolarmente aromatizzati e utilizzati anche come medicamenti, come l’ippocrasso e il vino aromatizzato con le rose.
Non mancano, tuttavia, altre bevande fermentate, a base di mele come il medum (quello che noi oggi chiamiamo “sidro”), l’idromele, o la cervesia, la birra, più rara nel Sud Italia ma comunque presente. Può essere a base di orzo e di spelta, o ancora di avena, e, non conoscendosi il luppolo, ha un sapore molto più dolce della nostra.

Isacco e i suoi figli a mensa - miniatura dal Pentateuco di Tours, Roma, VII sec. - Parigi, BnF.

Isacco e i suoi figli a mensa – miniatura dal Pentateuco di Tours, Roma, VII sec. – Parigi, BnF.

Il pasto più sostanzioso è ovviamente la sera, quando tutta la famiglia si riunisce nella grande sala che funge anche da sala da pranzo.
Nei giorni di festa o nelle case nobiliari si rivestono le pareti delle stoffe migliori e si stendono tappeti sul pavimento: il lusso è dato sostanzialmente da questo, oltre che dalle suppellettili da mensa. La tavola, invece, è estremamente semplice: è spesso semplicemente appunto una tavola poggiata al momento dell’uso su dei cavalletti, a seconda del numero dei commensali, poco ingombrante perché una volta utilizzata si appende alla parete. Nelle dimore aristocratiche o alla corte del principe, nelle grandi occasioni, sono in genere più di una, disposte a ferro di cavallo in modo da permettere a tutti i commensali di guardarsi e ai servitori di portare le pietanze.
Il vasellame è di solito in terracotta, in contesti particolarmente raffinati può essere anche di metallo lavorato o di vetro: sono state trovate perfino salsiere dotate di un apposito scomparto in cui inserire un carbone per mantenere calda la salsa da portare a tavola. Quanto al vasellame personale, vi è l’usanza di mettere a disposizione una ciotola e un bicchiere ogni due o tre persone, da cui deriva la regola di pulirsi la bocca prima di bere; soltanto il cucchiaio per le vivande liquide e il coltello sono personali, e quest’ultimo di solito si porta sempre con sé, appeso alla cintura. Le pietanze non sono presentate su vassoi ma su mensae, grandi forme di pane schiacciate simili a delle pizze che i commensali utilizzano come piatto comune, e che alla fine vengono mangiate anch’esse.
La forchetta si conosce, ma è usata perlopiù per l’operazione di tagliare la carne prima di servirla. Come in epoca romana, si mangia con le mani in particolare utilizzando dito medio, anulare e pollice, e i vari galatei raccomandano di stare attenti a prendere il cibo con la punta delle dita, evitando di ungersi le mani e la bocca. Comunque, proprio per questo il padrone di casa, all’inizio del pasto, mette anche a disposizione degli acquamanili per lavarsi le mani, con acqua che può anche essere profumata.
Buon appetito, Longobardi!

Dall’intervento di Chiara Comegna “L’alimentazione nell’Alto Medioevo“, Degustarte Salerno, parco dell’Irno, Salerno, 10/10/2015.

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Buongiorno a tutti! Sono una paleografa con la vocazione per la scrittura e il pallino del Medioevo e delle sue storie. Amo la lettura, la buona musica, la poesia, la filosofia, l'arte, il cinema: in breve, qualunque espressione del buono, del bello e del vero. Nel 2011 ho vinto l'VIII edizione del premio letterario "Il racconto nel cassetto" con il racconto "Il Tamburo delle Sirene", pubblicato dalla Centoautori in "Il Tamburo delle Sirene e altri racconti" (2012). Ho collaborato con il sito di Radio CRC e con il giornale on-line "Citizen Salerno" e ora collaboro con la rivista on-line "Rievocare". Faccio parte del gruppo di living history "Gens Langobardorum" e come rievocatrice indipendente promuovo la Scuola Medica Salernitana, gloria della mia città. Nel 2020 ho pubblicato con la Robin "Mulieres Salernitanae. Storie di donne e di cura".
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