Sazi ma non pesanti: cena longobarda a S. Maria de Domno

IMG_3236Quattordici presenze in tutto.
Un risultato un po’ magro rispetto all’entusiasmo che sembrava aver suscitato la Cena Longobarda organizzata domenica 19 aprile dal gruppo di rievocazione Gens Langobardorum, in collaborazione con la Taverna Santa Maria de Domno, a Via Masuccio Salernitano
: un appuntamento non solo gastronomico, ma culturale, in cui sarebbe stato possibile rivivere la reale atmosfera di un banchetto alla corte del principe Arechi II. Tanti elogi ed apprezzamenti, ma pochissime prenotazioni effettive.
Coincidenza dell’appuntamento con la Mostra della Minerva? Difetti di promozione da parte degli organizzatori? Colpa della crisi, che fa apparire un costo enorme anche i 25 euro a persona richiesti per il menu (in realtà molto poco, di solito una cena medievale fatta bene costa non meno di 30-35 euro a persona), una percentuale della quale contribuirà alla realizzazione dell’evento Principatus Salerni previsto per giugno?

IMG_3234Forse la risposta è altrove, almeno secondo la fondatrice e proprietaria della taverna, Anna Santoro: «Otto anni fa, quando aprii questo locale insieme a mio marito, l’idea era quella di un salotto culturale, fatto non semplicemente per mangiare, ma che potesse anche ospitare mostre d’arte, concerti jazz, incontri di poesia, ecc. Anche quando il ristorante si è avviato, e siamo riusciti ad abbattere il pregiudizio che il nostro fosse un ristorante di lusso, abbiamo dovuto e dobbiamo tuttora fare i conti con un livello culturale molto spento, che non ci ha dato tra l’altro la possibilità di avviare il “salotto”, anche se, appena possiamo, esponiamo opere di giovani artisti. Le iniziative di un certo livello, qui nel centro storico, sono molto rare, la gente non è molto propensa ad andare oltre la classica pizzeria da 10 euro del sabato sera.» Come se la città, senza voler generalizzare, sia avvolta in una sorta di torpore, di indifferenza per tutto ciò che non tocchi direttamente, che non soddisfi bisogni immediati o indotti, di sicuro non relativi al “saperne di più”. Anna Santoro, però, individua un’altra causa più pratica: «Parcheggiare, nel centro storico, è letteralmente impossibile, e questo fa soffrire in generale tutti i commercianti della zona, perché scoraggia la gente dal venire qui, soprattutto chi viene dalla provincia: forse anche per questo gli eventi di Cava sono molto più frequentati rispetto a quelli di Salerno. Anni fa avevamo chiesto almeno di riavere Piazza Sant’Agostino come parcheggio, ma non ci è stato concesso.»

IMG_3235Rispetto alle quattro prenotazioni iniziali, però, quattordici presenze sembrano decisamente un risultato niente male, e una serata che sembrava dovesse clamorosamente fallire si è trasformata in una piacevole e tranquilla occasione per sperimentare l’atmosfera della corte del principe Arechi II in maniera davvero multisensoriale: non solo con la vista e l’udito (e dunque con la mente), ma anche con l’olfatto, il gusto, e… il tatto! Sì, perché gli ospiti, guidati dai membri della Gens in abito storico, hanno potuto (ri)scoprire un contatto con il cibo più diretto e corporeo, antico e moderno al tempo stesso, al di là della distaccata forchetta, prendendolo con la punta delle dita come nell’Alto Medioevo, e portandolo con cura alle labbra, senza sporcarle e dando loro il tempo di assaporarlo.

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Polpette di rafano e formaggio.

Anche la successione delle portate, ispirate ai principi di dietetica della Scuola Medica Salernitana, il cui scopo principale è rendere la digestione più facile possibile, ha contribuito a presentare un’idea di mangiare in armonia con il proprio corpo e con i suoi ritmi. La cena in cui si mescolavano sapori occidentali e orientali, che si apriva con frutta fresca e vino bianco secco per chiudersi con un “budino” di grano cotto, fichi secchi e uva passa, passando per polenta d’orzo, spezzatino di maiale e polpette di rafano e formaggio, ha riscosso molto successo; soprattutto, interrogati in merito, gli ospiti hanno affermato di sentirsi sazi ma non pesanti, nonostante le numerose portate. Merito dello chef Alfonso Romano e degli ingredienti di qualità usati, ma anche delle ricette ricavate direttamente da trattati altomedievali longobardo-bizantini e arabi, a conferma della lungimiranza degli insegnamenti dietetici dei medici dell’Antichità e dell’Alto Medioevo, poi confluiti nella Scuola Medica Salernitana.

Resti del campanile.

Resti del campanile.

La scenografia, d’altronde, non poteva essere più adatta: il ristorante, infatti, è ricavato da un ambiente appartenuto all’antica chiesa longobarda di Santa Maria de Domno.
Una chiesa fatta edificare da una donna, la moglie del principe di Salerno Giovanni, Sichelgaita (bisnonna della sua più famosa omonima che avrebbe sposato Roberto il Guiscardo), attorno al 990, inter murum et muricinum, come leggiamo in tre documenti redatti tra il 990 e il 991, cioè nello spazio tra le antiche mura romano-bizantine e quelle nuove fatte costruire dal principe Arechi II o da suo figlio Grimoaldo, direttamente sulle quali, tra l’altro, poggiava il lato sud della chiesa. Santa Maria de Domno, denominata così già in un documento del 1092, delimitava nel Medioevo, insieme a Santa Maria de Mare (oggi Santa Lucia), il “Vico della Giudaica”, il quartiere ebraico di Salerno, nel quale aveva sede la comunità ebraica forse più grande dell’intero Sud Italia. Quell’antica chiesa, però, è ormai scomparsa, mimetizzata nelle trasformazioni successive, soprattutto quelle posteriori al 1862, quando era ormai sconsacrata da cinquant’anni e completamente irriconoscibile: fanno capolino soltanto la sagoma del campanile, una colonna di spoglio in marmo con basamento e la soglia di marmo posta all’ingresso della chiesa, quest’ultima collocata, quasi come “biglietto d’ingresso”, all’entrata del ristorante.

Antica soglia in marmo di Santa Maria de Domno.

Antica soglia in marmo di Santa Maria de Domno.

È stata una precisa scelta dell’architetto Aniello Piemonte, comproprietario del locale insieme alla moglie Anna Santoro e curatore del restauro, che ha voluto meno invasivo possibile.
«Restaurare un edificio storico per trasformarlo in un locale ad uso commerciale senza danneggiarlo è stata una bella sfida,» racconta. «Sono nato e cresciuto in questo quartiere, e posso dire di conoscere la sua architettura nei minimi dettagli, così come le trasformazioni che ha subito negli ultimi anni; quando, però, si mette mano al restauro di un edificio storico, niente va lasciato al caso, va fatto uno studio approfondito sulla sua storia e sui suoi cambiamenti, consultando archivi e catasti. Quando io e mia moglie ne entrammo in possesso, questo ambiente era un panificio in rovina, e inutilizzato da quattro-cinque anni. Quello cui io tenevo molto era far riemergere le testimonianze dell’antica chiesa di Santa Maria de Domno, cercando al tempo stesso di non toccare più del necessario: la colonna di marmo originale, ad esempio, era completamente ricoperta di mattoni, e noi abbiamo voluto renderla visibile quanto più si poteva. Anche gli elementi dell’antica panetteria sono stati riutilizzati: abbiamo ricavato i pilastri con i mattoni del forno che avevamo demolito e la cantina per il vino dalla cisterna del forno; l’intonaco delle volte è stato spicconato per mettere a nudo i mattoni che le compongono, e abbiamo perfino ripulito l’interstizio tra un mattone e l’altro per evidenziarli ancora di più.»

Colonna romana di spoglio in marmo

Colonna romana di spoglio in marmo

Un restauro conservativo, dunque, come dovrebbe essere quello di ogni edificio storico. Qual è dunque, secondo l’architetto Palumbo, la situazione generale degli edifici storici di Salerno?
La sua risposta è secca: «A parte poche eccezioni, disastrosa. Per due motivi in particolare: la mancanza di uno studio approfondito della storia di ogni edificio e lo scarso utilizzo dell’edificio restaurato, con relativa scarsità di manutenzione ordinaria. Il complesso di Santa Sofia, dalle potenzialità enormi ma lasciato letteralmente ad ammuffire.»

Ingresso alla cantina.

Ingresso alla cantina.

Questo, però, fa sorgere un altro problema, lo stesso che sollevano molti cittadini singoli, comitati o associazioni: un edificio storico trasformato in qualcosa ad uso privato non rappresenta un “furto” alla fruizione pubblica?
«Assolutamente no,» risponde Aniello Piemonte in modo altrettanto deciso. «Al contrario, gli si fa vivere una seconda vita. La cosa, però, dev’essere fatta nel modo giusto: se i privati, oggi come oggi, sono gli unici ad avere le risorse economiche per intraprendere un restauro, è necessario un controllo molto stretto da parte delle istituzioni pubbliche e che vi siano maestranze adeguate sia per lo studio di base sia per l’esecuzione, in modo da non intaccare il valore storico dell’edificio. E, soprattutto, bisogna che il privato abbia l’intelligenza di capire che l’uso commerciale va conciliato con la fruizione pubblica. È quello che noi stiamo tentando di fare con la Taverna Santa Maria de Domno, sperando che ce ne diano la possibilità.»

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Bibliografia:
Sito della Taverna Santa Maria de Domno:
Vincenzo de Simone, Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di Santa Maria de Domno in Salerno, in “Rassegna Storica Salernitana”, 28, 1997, pp. 7-21;
Generoso Crisci, Salerno Sacra, a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, edizioni Gutenberg 2001, I, pp. 66-71.

Articolo pubblicato su “Citizen Salerno” – Cultura e gastronomia di alto livello, ma poche presenze: la cena longobarda a S.Maria de Domno.

Informazioni su Mercuriade

Buongiorno a tutti! Sono una paleografa con la vocazione per la scrittura e il pallino del Medioevo e delle sue storie. Amo la lettura, la buona musica, la poesia, la filosofia, l'arte, il cinema: in breve, qualunque espressione del buono, del bello e del vero. Nel 2011 ho vinto l'VIII edizione del premio letterario "Il racconto nel cassetto" con il racconto "Il Tamburo delle Sirene", pubblicato dalla Centoautori in "Il Tamburo delle Sirene e altri racconti" (2012). Ho collaborato con il sito di Radio CRC e con il giornale on-line "Citizen Salerno" e ora collaboro con la rivista on-line "Rievocare". Faccio parte del gruppo di living history "Gens Langobardorum" e come rievocatrice indipendente promuovo la Scuola Medica Salernitana, gloria della mia città. Nel 2020 ho pubblicato con la Robin "Mulieres Salernitanae. Storie di donne e di cura".
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