Oggi vi racconterò una storia d’amore. Non una storia d’amore qualunque, però: non vi sono baci, carezze, parole di miele. È l’amore che non viene accettato, l’amore che viene negato fino a diventare guerra, fino alla morte. È la storia di Tancredi e Clorinda, raccontata nel Cinquecento dai versi appassionati di Torquato Tasso, nel suo poema Gerusalemme Liberata, ambientata durante la Prima Crociata, nel 1096.
Tancredi d’Altavilla, discendente di Roberto il Guiscardo, è in Terrasanta al seguito di Goffredo di Buglione. È un cavaliere valoroso, bello, cortese, pieno di forza e di coraggio. Il suo cuore, però, è lacerato da un amore segreto. Non sa niente di lei, nemmeno il suo nome; l’ha incontrata per caso, in un’oasi sperduta nel deserto. Nulla la distingueva a prima vista da un guerriero musulmano, e se lei non avesse tolto l’elmo per chinarsi a bere dalla sorgente, non si sarebbe nemmeno accorto che era una donna. Ma un attimo è bastato: ora Tancredi non pensa che a lei, giorno e notte.
Non sa che anche lei l’ha visto; lei, Clorinda, principessa etiope in fuga, scampata all’impossibile, allattata da una tigre, educata dall’eunuco Arsete all’arco e alla spada. Si vanta di non conoscere la paura, è ammirata e temuta, le sue imprese sono arrivate perfino all’orecchio del sultano Aladino. Clorinda non conosce il nome del Franco infedele che ha incrociato all’oasi, ma ha visto i suoi occhi ardenti fissi su di lei e ha sentito qualcosa andare sottosopra. Nessuno l’ha mai guardata in quel modo; non si era mai sentita così vulnerabile, indifesa, come sotto quello sguardo. Così donna. Lo sconosciuto le fa paura, forse per la prima volta in vita sua: non lo accetta, quell’uomo le fa rabbia e spera di non rivederlo mai più.
Invece lo rivedrà ben presto. Clorinda organizza una scaramuccia contro i Franchi; s’imbattono in un drappello che sta tornando al campo con il bottino di una razzia, e subito li attaccano. Ad un tratto, nella mischia, un cavaliere si getta alla carica contro di lei; il suo volto è coperto dall’elmo, Clorinda non sa chi sia, eppure ammira la sua forza e il suo coraggio. Un colpo di lancia e l’elmo le cade dalla testa, svela il suo volto e le sue fattezze di donna. Tancredi rimane impietrito, non vuole più combattere, per quanto lei lo provochi; anzi, si getta come una furia contro un altro cavaliere cristiano che l’ha aggredita da dietro e ferita leggermente al collo. Alla fine, i Saraceni hanno la peggio e battono in ritirata.
Clorinda non riesce a capacitarsi di quel che è accaduto: la rabbia contro il cavaliere sconosciuto cresce, finché si convince di odiarlo, e così non perde occasione per farla pagare ai Franchi, in un modo o nell’altro.
Arriva al punto di entrare di soppiatto nell’accampamento cristiano, una notte, insieme al fedele compagno d’armi Argante. Sgusciano all’interno della torre di legno con cui i Franchi vogliono assaltare le mura, la cospargono di bitume e pece, e danno fuoco. Quando Tancredi e gli altri cavalieri si svegliano di soprassalto, è troppo tardi: la torre è diventata un enorme falò, e il fuoco e il fumo si diffondono per l’accampamento, resta ucciso un suo carissimo amico, Arimone. I due Saraceni battono in ritirata, ma le porte della città si aprono e si richiudono troppo in fretta. Clorinda resta fuori, inseguita da Tancredi. Questa volta lui non l’ha riconosciuta, le lancia urla di sfida, vuole vendetta per la morte dell’amico. Perfetto, pensa Clorinda: finalmente si farà sul serio.
Il duello è di una violenza inaudita, dall’una e dall’altra parte, Clorinda ha la peggio, ma non molla, rifiuta con disprezzo perfino la possibilità offertale da Tancredi di rivelare la sua identità: forse ha più paura dell’amore del nemico che non della sua spada. Tutto crolla solo quando quella spada la colpisce in pieno petto. È allora che qualcosa dentro di lei si spezza: vede la morte in faccia, e vede tutto quello che non ha potuto essere, la donna che lei stessa ha annientato e che forse avrebbe potuto essere felice. Ma ora è quella donna che parla in lei, e che chiede a Tancredi di perdonarla e di battezzarla. È il suo ultimo desiderio, forse perché vuole sentirsi donna, almeno in punto di morte: i Cristiani non sono forse coloro che dedicano chiese e santuari a una donna, che chiamano Nostra Signora? O forse per la segreta speranza che, unendosi almeno nella fede all’unico uomo che l’ha amata, possa ritrovarlo, un giorno.
Tancredi acconsente, si toglie l’elmo, lo riempie nella prima pozza d’acqua che gli capita a tiro e scopre il volto del suo avversario. Solo allora si ritrova con gli occhi negli occhi della donna che ama, e che egli stesso ha ucciso; il dolore gli incatena le mani e la lingua, vorrebbe mille volte che quel colpo di spada avesse trafitto lui. Solo le parole di Clorinda gli danno la forza per versarle l’acqua sui capelli e pronunciare quelle parole: io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
E Clorinda è lì e sorride, più bella che mai, finalmente e pienamente donna. Ora può amare, può tenere gli occhi fissi in quelli di Tancredi, che la culla tra le braccia, fino al suo ultimo respiro.
D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come à gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
(Gerusalemme Liberata, XII, 69)
mi ha fatto piangere come la prima volta che ho letto l’originale … con l’aggravante che quella volta ero una ragazzina e adesso un’aspirante nonna!!!
La freschezza dell’animo di una persona si misura da se è capace di piangere: se riesci ancora a farlo alla tua età, sei una rosa fresca e profumata!
grazie!
Sapevo che non dovevo leggere: commozione-time in corso…
Incredibilmente suggestiva anche la trasposizione musicale che fece Claudio Monteverdi di quel canto della Gerusalemme:
Grande Monteverdi!
Concordo!!!!!
bellissimo racconto
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Bello, ed emozionante