Sichelgaita: la Pallade longobarda

Santa in trono - Affresco dall'Abbazia di Sant'Angelo in Formis (Capua) - XI secolo.

Santa in trono – Affresco dall’Abbazia di Sant’Angelo in Formis (Capua) – XI secolo.

Anzitutto, presentiamo la protagonista di questo blog: chi è Sichelgaita?
Si potrebbe rispondere in molti modi: la sorella dell’ultimo principe della Langobardia del Sud Gisulfo II, la moglie del primo duca normanno delle Puglie e delle Calabrie Roberto il Guiscardo, una donna di potere e di cultura insieme, una guerriera, una donna “tosta”, tanto da essere definita dal d’Annunzio «Sichelgaita dal quadrato mento».
Sicuramente è una protagonista del suo tempo, la seconda metà dell’XI secolo: un periodo di fermento e di rotture, il periodo in cui la Chiesa, con papa Gregorio VII, lotta per liberarsi dalla tutela del potere imperiale; il periodo della spaccatura tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli; e il tempo in cui il Principato di Salerno, roccaforte degli ultimi Longobardi, viene conquistato da un gruppo di mercenari venuti dal Nord della Francia, i Normanni.
Qui tenteremo un po’ di ricostruire la personalità e la storia di Sichelgaita, confrontandola con una donna simile per molti aspetti: Adele di Normandia, figlia di Guglielmo il Conquistatore, moglie del conte Stefano di Blois, anche lei donna coltissima, dalla grande personalità e sensibilità politica, che, come Sichelgaita, svolge un ruolo di primo piano tra l’XI e il XII secolo.

Città - miniatura dal

Città – miniatura dal “De Universo” di Rabano Mauro – Montecassino, X-XI sec.

Non conosciamo l’anno esatto della nascita di Sichelgaita, forse intorno al 1036; di certo sappiamo che è la terza figlia del principe Guaimario IV e di Gemma, figlia del conte Landolfo di Teano. Nasce a Salerno, una città che le stesse monete definiscono “opulenta”, al momento del suo massimo splendore; è significativo che Amato di Montecassino definisca Salerno come la “terra che produce latte e miele”, le stesse parole con cui, nella Bibbia, viene definita la Terra Promessa, simbolo di ricchezza e fertilità. Come dargli torto? La Salerno di questa prima metà dell’XI secolo è una città ricca e dinamica, protesa verso il Mediterraneo, che importa ceramiche pregiate dalla Grecia e dalla Sicilia islamica, in cui l’aristocrazia imita il modo di vivere dell’alta società di Costantinopoli. Il suo sovrano, Guaimaro IV, è lodato da tutti i cronachisti, nessuno escluso, per il suo buon governo e la sua magnanimità; in particolare, per aver accolto nel suo regno e preso al suo servizio, come aveva fatto suo padre Guaimaro III, delle bande di guerrieri a cavallo provenienti dal Nord della Francia, di lontana origine vichinga, che cercano fortuna in questa terra che produce latte e miele, i Normanni; cadetti di famiglie come i Drengot e gli Hautville, che, non avendo un proprio feudo, sono costretti a mettere le proprie armi al servizio di un signore. Grazie all’aiuto di questi mercenari che d’altronde, seguendo le usanze della madrepatria, hanno eletto Guaimaro a loro signore feudale, e grazie a un’abile politica con l’imperatore Corrado II, il principe di Salerno ha potuto annettersi il principato di Capua, e i territori di Amalfi, Sorrento e Gaeta; non solo, ben presto questi mercenari s’impadroniscono della Puglia, strappandola ai bizantini, investendo così Guaimaro del titolo di duca delle Puglie e delle Calabrie e rendendolo di fatto il signore dell’Italia Meridionale.

Scuola - miniatura dal

Scuola – miniatura dal “De Universo” di Rabano Mauro – Montecassino, X-XI sec.

Sichelgaita cresce dunque in una città ricca e colta, multietnica e multiculturale, dove la cultura longobarda si è fusa da tempo con la cultura latina e greca, sede della più numerosa comunità ebraica del Sud Italia e frequentata da mercanti arabi; e la sua educazione risente di questo clima. Il suo contemporaneo Amato di Montecassino la definisce «nobile, bella e saggia», Romualdo Guarna, vescovo di Salerno nel XII secolo, la descrive come «onesta, pudica, virile nell’animo e provvida di saggi consigli»; anche Orderico Vitale, cronachista inglese dello stesso periodo, ribadisce l’astuzia di questa donna, e aggiunge che è stata «allevata dagli archiatri salernitani». Insomma, le qualità principali che tutti le riconoscono sono l’intelligenza e la cultura: dove le ha acquisite? Le principesse e le fanciulle nobili, di solito, vengono educate nei monasteri femminili, dove possono ricevere un’educazione di altissimo livello: lì imparano prima di tutto a cantare il salterio, cioè a leggere, e poi apprendono le Sette Arti Liberali, quelle del Trivio, grammatica, retorica e dialettica, e quelle del Quadrivio, aritmetica, geometria, astronomia e musica. Anche Adele di Normandia, cui i contemporanei riconoscono una cultura straordinaria, ha studiato in un monastero, nello specifico in quello della Trinità a Caen: Adele ha una predilezione particolare per la letteratura, la sua stanza da letto è rivestita di arazzi che rappresentano scene bibliche e mitologiche, riunisce attorno a sé una corte di poeti di primo piano, come Ivo di Chartres, Ildeberto di Lavardin, e, soprattutto, l’abate Baudri de Borgueil, uno dei primi “proto-trovatori”, che le dedica versi quasi d’amore.
La passione di Sichelgaita, a detta dei contemporanei, sembra essere invece la medicina, che è d’altronde la grande specialità di Salerno, i medici salernitani ormai da due secoli sono famosi in tutta Europa e, raccogliendo attorno a sé gruppi di discepoli, formano le migliori scuole di medicina del mondo, a detta dell’inglese Orderico Vitale. Per giunta, nell’XI secolo, la Scuola Medica Salernitana sta entrando nel suo periodo d’oro: ai testi classici di Ippocrate, Galeno, Dioscoride, ecc. si aggiungono quelli di grandi maestri contemporanei, come Garioponto (forse l’ “archiatra”, cioè il medico personale del principe Guaimario), e lo stesso arcivescovo di Salerno, Alfano I. Alcuni hanno perfino immaginato che Sichelgaita sia stata discepola di Trotula, la “sapiente matrona” che sola riesce a tener testa nel 1059 al grande erudito franco Raoul Maucouronne, e a cui vengono attribuiti scritti di ginecologia faranno scuola fino al Rinascimento; nessuna fonte, però, riporta che Sichelgaita sia stata sua allieva, anche se non possiamo escludere che abbia conosciuto Trotula, o Trotta de Ruggiero, se la figura di questa medica corrisponde a quella tracciata da Salvatore de Renzi nella sua Storia documentata della Scuola Medica Salernitana. Non è inverosimile, dunque, che Sichelgaita, e forse anche le sue sorelle minori Gaitelgrima e Sicarda, siano state educate nell’antico e prestigioso monastero di San Giorgio, a due passi dal palazzo, forse uno dei “centri femminili” della Scuola Medica Salernitana, tanto più che, come sappiamo da un documento del 1038, ha al suo interno un’infermeria.

Guerrieri longobardi - miniatura dal

Guerrieri longobardi – miniatura dal “De Universo” di Rabano Mauro – Montecassino, X-XI sec.

Questa giovinezza così spensierata, però, è destinata a finire ben presto: il potere acquisito dal principe Guaimaro gli ha procurato anche molti nemici, non solo all’esterno, ma anche all’interno del suo dominio e perfino della sua famiglia. Prende così vita una congiura in cui sono coinvolti soprattutto amalfitani, decisi a riconquistare l’indipendenza ad ogni costo, ma pilotata da parenti stretti del principe, con a capo il suo stesso cognato Pandolfo. Tutto si compie il 3 giugno 1052, Guaimaro IV viene massacrato sulla spiaggia di Salerno con trentasei colpi di lancia, e i suoi figli imprigionati. Se la situazione si risolve per il meglio è ancora una volta per merito dei mercenari normanni, comandati da Guidone, fratello del defunto principe, che ripiomba a Salerno, fa piazza pulita dei congiurati e libera i suoi nipoti.
Non ci è dato sapere come Sichelgaita, che allora ha circa 16 anni, sia uscita da questa terribile avventura, su questo i cronachisti tacciono; sappiamo perfettamente, però, quale effetto abbia avuto su suo fratello, il ventiduenne Gisulfo, innalzato a successore del padre dallo zio Guidone. Infatti, una volta divenuto principe di Salerno, Gisulfo II si vendica ferocemente contro tutti coloro che hanno tramato l’assassinio del padre; in particolare nei confronti degli Amalfitani egli nutre un odio terribile, li sottopone a sanzioni sempre più alte, ogni volta che può sequestra le loro navi, prende ostaggi tra i loro cittadini più eminenti ed esige riscatti altissimi. L’aver scoperto che a capo della congiura c’era suo zio Pandolfo l’ha reso sospettoso verso tutto e tutti, al minimo sentore di sollevamenti o di complotti, veri o presunti, non esita ad intervenire anche con brutalità e spietatezza, convinto che solo in questo modo possa salvare la propria vita, quella della sua famiglia, e i territori ereditati dal padre, roccaforte di tutto ciò che resta della Gens Langobardorum, il Popolo dei Longobardi.

Cavallo - pezzo della scacchiera detta

Cavallo – pezzo della scacchiera detta “di Carlo Magno” – Italia meridionale, 2a metà dell’XI sec. – Parigi, BnF.

C’è una minaccia, però, che il giovane sovrano non ha messo in conto, e sono proprio i Normanni, che da vassalli e alleati dei principi longobardi di Salerno, stanno divenendo rapidamente pericolosi concorrenti. Uno in particolare desta preoccupazione, e non solo ai Longobardi: Robert d’Hautville, ricordato dalla storia come Roberto d’Altavilla, soprannominato anche dai suoi contemporanei “Guiscardo” (Viscart), cioè “l’Astuto”, e non a torto: aveva cominciato anche lui come semplice mercenario, e, tra il 1053 e il 1057, era riuscito a strappare all’Impero d’Oriente la Puglia e quasi tutta la Calabria, divenendone il conte alla morte di suo fratello Umfredo, e, di fatto, padrone di gran parte del Mezzogiorno, grazie ad un’abile politica di trattative con le città. Perfino i suoi nemici riconoscono la sua furbizia e la sua capacità di cogliere al volo le occasioni favorevoli, come il coraggio e la forza che dimostra come guerriero, pur se spesso il guerriero diviene predone, sterminatore senza scrupoli né pietà, assetato di potere.
E uno così non può esser certo il tipo che si accontenta: la sua ambizione mira alla conquista di Salerno. L’occasione per fare il primo passo si presenta quando il principe Gisulfo II gli manda suo fratello Guidone per chiedergli di mettere un freno a Guglielmo detto “Braccio di Ferro”, fratello di Roberto, che, con i suoi uomini, sta mettendo a ferro e fuoco i villaggi al confine con la Puglia. Roberto accetta, ma ad una condizione: in cambio vuole Sichelgaita in sposa. In realtà, il Guiscardo è già sposato, e ha un figlio di nome Boemondo, ma sua moglie Alberada è una sua parente, e dato che, a norma di diritto canonico, sono vietati i matrimoni fino al settimo grado di parentela, sarà uno scherzo annullarlo.
Gisulfo si accorge immediatamente dove il Normanno vuole andare a parare, e le tenta tutte perché questo matrimonio non s’abbia da fare: dapprima gli manda la risposta che le sue finanze non sono in grado di fornire a sua sorella una dote adeguata. Roberto, però, non è tanto ingenuo da credere a simili scuse, e non è disposto a lasciarsi sfuggire così facilmente l’occasione di imparentarsi con il principe e poter pretendere diritti sul suo dominio. Piomba a Salerno con tutti i suoi uomini e affronta di persona Gisulfo, vuole Sichelgaita in moglie, non importa come, provvederà egli stesso a darle in dote il meglio dei suoi possedimenti in Calabria. Gisulfo gli chiede una proroga, a suo dire per avere il tempo di preparare tutto il necessario; Roberto gli crede, o finge di credergli, e si ritira.
Gisulfo, in realtà, con l’aiuto dello zio Guidone, anche lui contrario, vuole cercare un modo di risolvere da solo la questione con Guglielmo, senza correre il rischio di imparentarsi con Roberto: tentano di offrire a Guglielmo un motivo per calmarsi dandogli in sposa una figlia di Guidone.
Eppure il matrimonio tra Roberto e Sichelgaita ha luogo, nonostante tutto.
Conoscendo il carattere di Gisulfo, testardo fino all’inverosimile, com’è potuto accadere che si sia arreso tanto facilmente? Forse c’è dietro lo zampino della stessa Sichelgaita?
Sappiamo dalla principessa bizantina Anna Comnena, certamente non filonormanna, che il Guiscardo era un gran bell’uomo: Anna lo definisce «maestoso di volto, di statura alta, largo di spalle, perfetto di forme, di chioma e barba fulve, d’occhi vivaci e penetranti». Il fascino nordico del condottiero normanno può aver fatto effetto sulla ormai ventiduenne Sichelgaita, ma forse c’è ben altro, frutto anch’esso dell’orribile esperienza dell’assassinio del padre e della prigionia: se tutto questo ha reso Gisulfo ostinato, sospettoso e spietato, può avere d’altra parte affinato il fiuto politico di sua sorella, e averle dato quella lucidità anche cinica, ma indispensabile per non fare la stessa fine dell’augusto genitore. Sichelgaita, dalla vista più lunga del fratello, può avere impiegato il tempo della proroga per convincerlo che non c’è altra scelta: il dominio dei Longobardi di Salerno è ormai un’isola in un lago di Normanni, si sono moltiplicati come le mosche dentro e fuori i loro territori e hanno una netta superiorità militare; non c’è speranza di batterli con la forza, e perciò l’unico modo perché la stirpe dei principi Longobardi non svanisca nel nulla è unirla ai nuovi dominatori del Mezzogiorno.

Santa vestita da sposa - affresco dalla chiesa di Santa Maria della Croce, Casarano (Lecce), XI sec.

Santa vestita da sposa – affresco dalla chiesa di Santa Maria della Croce, Casarano (Lecce), XI sec.

La cerimonia ha luogo a Melfi, verso il 1059: possiamo immaginare Sichelgaita, bruna donna del Sud, vestita di seta bizantina, ingioiellata come una madonna, al fianco del gigante biondo venuto dal Nord, gli occhi scuri della principessa longobarda che incontrano quelli azzurri del conte normanno. È l’incontro (e lo scontro) di due mondi diversi, uno all’alba, l’altro al crepuscolo, ma per nulla intenzionato a farsi inghiottire. E la longobarda Sichelgaita ha un asso nella manica, su questo punto: gli otto figli che avrà da Roberto, a cominciare dal primogenito Ruggiero, il futuro Ruggiero Borsa; per lei sono la speranza di evitare uno scontro diretto con suo fratello Gisulfo, e insieme il futuro della stirpe longobarda.
I documenti, d’altra parte, provano che Sichelgaita sia tutt’altro che una pedina muta all’interno dei giochi di potere maschili: il suo ruolo, come quello di Adele di Normandia, è essenzialmente quello di mediatrice tra due lignaggi familiari, e questo ruolo lo esercita in modo attivo, in prima persona: negli atti e nelle donazioni in cui compare al fianco di Roberto, soprattutto nelle terre che lui le ha dato in dote, Sichelgaita agisce per conto suo, come principessa longobarda, non semplicemente come la moglie del Conte di Puglia. In molti atti di Roberto, il ruolo di consigliera di Sichelgaita viene dichiarato esplicitamente: è ricorrente la dicitura “per intervento di Sichelgaita” o “per intercessione di Sichelgaita”. E non c’è niente di anormale in questo: da una parte vi è la tradizione longobarda delle principesse-consigliere, da Adelperga a Landelaica, dall’altra quella squisitamente feudale, tipica della Francia da cui Roberto proviene, di compartecipazione del feudatario e di sua moglie al governo del territorio. Anche Adele di Normandia svolge un ruolo simile: quando compare nei documenti a fianco del marito Stefano di Blois o da sola, vi compare come figlia di Guglielmo il Conquistatore invece che come contessa di Blois. E, nel momento in cui Stefano “tiene corte”, ovvero compie i suoi obblighi giudiziari come feudatario, appare chiaro che le sentenze sono frutto della decisione congiunta sua e di sua moglie.

L'Abate Desiderio offre il codice a San Benedetto - miniatura dal

L’Abate Desiderio offre il codice a San Benedetto – miniatura dal “Codex Benedictus”, Montecassino, XI sec. – Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana.

In quello stesso anno, accade una cosa molto importante per Sichelgaita: suo cugino Desiderio di Benevento, abate di Montecassino, viene nominato cardinale dal nuovo papa Niccolò II, e suo delegato per l’Italia meridionale. Sono anni di fermento per la Chiesa, il papa è deciso a proseguire con decisione la politica del suo predecessore Leone IX: affrancarsi dal potere secolare, in primo luogo degli imperatori, che più di una volta in passato avevano nominato loro i papi, e dare un colpo secco ai due mali più radicati tra il clero, la simonia e il concubinaggio. Ma Niccolò II aveva fatto di più: aveva stabilito che la nomina di un papa potesse avvenire soltanto tramite elezione dei cardinali, con buona pace dell’aristocrazia romana e degli imperatori, che fino allora avevano fatto di tutto per porre sul soglio di Pietro chi facesse loro più comodo per i loro interessi politici ed economici.
Il 23 agosto del 1059, Niccolò II, accompagnato dall’abate Desiderio, sceglie proprio Melfi come sede di un sinodo di fondamentale importanza, dove vengono in pratica resi pubblici i decreti del sinodo tenutosi a Roma il 13 aprile precedente: condanna di simonia e concubinato, e obbligo di castità per i sacerdoti.
Al sinodo sono presenti anche Roberto e Sichelgaita: Roberto giura fedeltà al papa, impegnandosi a far applicare le disposizioni del sinodo e di mettere la sua spada al servizio suo e dei suoi successori perché tutti i principi della riforma, in particolare quello sull’elezione del pontefice, non siano ostacolati da nessuno. Il papa, in cambio, riconosce le terre conquistate da Roberto come suo legittimo possesso, lo investe del titolo di duca di Puglia e di Calabria, e gli affida il compito di riconquistare la Sicilia invasa dai Saraceni secoli prima.
Amato di Montecassino ci tiene a sottolineare che il papa benedice sia Roberto sia Sichelgaita; e ciò può indurre a sospettare che la neo duchessa delle Puglie e delle Calabrie abbia avuto un ruolo non indifferente in tutto questo. Certo, Roberto ha capito benissimo che il suo potere deve essere in qualche modo legittimato, ma riconoscere il papa come signore feudale e dunque applicare le sue disposizioni nelle proprie terre, significa per lui rinunciare al controllo sui vasti territori posseduti dai monasteri. Allo stesso modo la pensa una buona fetta dei signori dell’Europa del tempo, i quali, con questa riforma corrono il rischio di vedere interrotta una pratica che va avanti da secoli, e che frutta loro bei quattrini.

Le autorità temporali - il signore e sua moglie - miniatura dall'Exultet di Capua, XI-XII sec.

Le autorità temporali – il signore e sua moglie – miniatura dall’Exultet di Capua, XI-XII sec.

In questo frangente, le donne esercitano un ruolo chiave di mediatrici tra le autorità ecclesiastiche e i signori laici. La corrispondenza che Adele di Normandia, signora insieme al marito Stefano dei territori di Blois, Chartres e Meaux, intrattiene con ecclesiastici di primo piano come Ivo vescovo di Chartres, mostra come lei fosse una preziosissima alleata per far accettare la riforma della Chiesa sia a suo marito, sia a suo padre Guglielmo re d’Inghilterra. Sichelgaita dunque, può aver giocato un ruolo simile, tanto più che ha come “referente” presso il papa uno di famiglia, suo cugino Desiderio, soprattutto facendo capire al marito che il guadagno è molto più grande della perdita: in questo modo non solo i suoi possedimenti sono legittimati, ma la sua posizione è divenuta centrale nel panorama europeo, essendo stato investito praticamente del ruolo di difensore ufficiale del papa, in contrapposizione agli imperatori di Germania, cui la nuova piega che la Chiesa ha preso non piace per niente
A questo proposito c’è un episodio significativo riportato da Amato di Montecassino: nel 1073, mentre si trova a Trani, Roberto è colto da una grave malattia (forse malaria) che si aggrava rapidamente. Iniziano a circolare voci su una sua presunta morte, e arrivano fino all’orecchio di colui che, proprio da quell’anno, siede sulla cattedra di Pietro, il papa delle rotture, il papa che sta stravolgendo tutti gli equilibri, il papa che avrebbe dato il suo nome a un’intera epoca, Gregorio VII; egli, senza perder tempo, invia degli ambasciatori a Sichelgaita con una lettera. Amato riporta il testo:

Un grande ed irrimediabile dolore si è abbattuto sulla santa Chiesa di Roma, dolore provocatoci dalla morte del carissimo figlio della santa Chiesa, il duca Roberto. Il cuore dei cardinali, di tutto il Sacro Collegio e di tutto il Senato di Roma è molto dolente per la sua morte, vedendo in ciò la propria rovina e testificando di aver perso la crescita della pace. Ma, perché la tua nobiltà conosca la benevolenza del signor papa, di quale amore e perfezione era nei riguardi di vostro marito, conducete qui suo figlio affinché, con il riconoscimento della santa Chiesa i beni che il padre aveva ricevuto dal precedente papa.

Questa lettera contiene una presa di posizione molto decisa, probabilmente frutto dell’influenza di Desiderio e dunque di Sichelgaita: l’erede di Roberto dovrà essere non il primogenito Boemondo, il figlio di primo letto, ormai più che ventenne, ma Ruggiero, il primo figlio avuto da Sichelgaita. Questo avrebbe consentito di risolvere una volta per tutte i problemi con Gisulfo senza spargimento di sangue: Gisulfo non ha eredi diretti, e dunque, alla sua morte, Salerno e i suoi territori sarebbero passati direttamente al nipote, per giunta longobardo per metà. Può sorgere il sospetto che sia stata proprio Sichelgaita a mettere in giro la voce della morte di Roberto per mettere fuori gioco Boemondo e, una volta che Ruggiero fosse stato investito dal papa in persona, mettere il marito davanti al fatto compiuto.
Roberto, però, è quasi guarito, e, appena lo viene a sapere, va su tutte le furie per questa decisione presa a sua insaputa, lui non intende aspettare, vuole Salerno adesso; fa dunque sapere al papa che lui è vivo e vegeto. Gregorio VII, ad ogni modo, non vuole rinunciare convincere Roberto che questa sarebbe la soluzione più ragionevole, e lo invita per un incontro a Benevento; incontro che dev’essere stato disastroso se, stando ad Amato di Montecassino, il pontefice torna a Roma infuriato.
Il Guiscardo non gliela fa passare liscia, e, contravvenendo al suo giuramento, non muove un dito quando alcuni suoi vassalli prendono a devastare villaggi e castelli in Abruzzo, in pieno territorio papale; anzi, giunge ad aggredire perfino Benevento, che, per gli accordi di Melfi, appartiene ufficialmente al papa. Gregorio, da parte sua, non se ne sta con le mani in mano, e, per prima cosa, cerca aiuto altrove: lo trova in Beatrice, contessa di Toscana, e sua figlia Matilde, signore di un vasto territorio che va dall’alto Lazio fin oltre il Po. Può così giocare la sua carta più temibile: la scomunica, che colpisce Roberto per ben tre volte, nel 1074, nel 1075 e nel 1078.

Tratto delle antiche mura di Salerno visibili sui fianchi del monte Bonadies.

Tratto delle antiche mura di Salerno visibili sui fianchi del monte Bonadies.

Il Guiscardo, però, ora sta pensando a ben altro: la conquista di Salerno. Attende, cercando un pretesto per attaccare il cognato Gisulfo. L’occasione si presenta nel momento in cui la città di Amalfi, esausta per le continue vessazioni del principe, si consegna letteralmente al Guiscardo. Visto che con Roberto è impossibile discutere, si cerca di trattare con Gisulfo. Il papa, legato al principe di Salerno da un’amicizia di lunga data, forse da quando aveva seguito, come suddiacono, papa Niccolò II al sinodo di Melfi, invia Desiderio per tentare una mediazione tra i due cognati, ma il principe sa benissimo che trattare con Roberto equivale ad essere spazzato via, e rifiuta in modo deciso. Sichelgaita, a questo punto interviene di persona, gli propone un accordo: Amalfi verrà data a suo figlio Ruggiero, e Salerno resterà a Gisulfo. Il principe, però, non è disposto a rinunciare a tutto ciò che resta dei domini di suo padre, e ad accettare che con lui scompaia l’ultimo avanzo della stirpe dei duchi e dei principi Longobardi, sovrani del Mezzogiorno da cinque secoli: manda a rispondere sprezzantemente alla sorella che fra poco lei avrebbe vestito “i panni neri del lutto”.
In realtà, Gisulfo ha capito di essere rimasto isolato. Negli anni precedenti, aveva cercato disperatamente di stringere alleanze con il principe Riccardo di Capua, Normanno anche lui ma rivale di Roberto, con la contessa Matilde di Toscana, perfino con l’imperatore d’Oriente, andando direttamente a Costantinopoli, con “il bastone e la borsa”, quasi come un mendicante, abbassandosi addirittura a chiedere ospitalità per sé e per la sua corte nel palazzo del capo della comunità costantinopolitana degli odiati Amalfitani, il conte Pantaleone di Mauro. Ora, però, non può contare sull’aiuto di nessuno, e tuttavia nemmeno in questo stato si dà per vinto: dà ordine che i Salernitani mettano da parte viveri per due anni e che si preparino per un lungo assedio.
Roberto, insieme al principe Riccardo di Capua, cinge d’assedio Salerno nel maggio del 1076, bloccando tutti i rifornimenti per terra e per mare; l’assedio dura un anno, lasciando dietro di sé una scia di fame e di morte, e pure Gisulfo non ha intenzione di cedere. Chi può cerca di uscire dalla città e di chiedere asilo al Guiscardo; anche il vescovo Alfano, ormai lo ha capito anche lui che non c’è altra scelta. All’interno delle mura, la situazione si aggrava rapidamente, la fame dilaga, tanto che gli abitanti sono costretti a mangiare le carcasse di cavalli, cani e gatti, perfino dei topi. E, anche in questo frangente, Sichelgaita dimostra la sua capacità di essere ella stessa, indipendentemente dal marito, un punto di riferimento per la sua gente: sia Guglielmo di Puglia sia Amato di Montecassino raccontano di come la duchessa inviasse di nascosto del cibo all’interno delle mura, in un sacchetto legato alla groppa di un cane addestrato.
Finalmente l’assedio ha termine: nottetempo, i Salernitani, esausti, aprono una breccia all’interno delle mura, permettendo così a Roberto e ai suoi uomini di entrare in città. Gisulfo, per tutta risposta, si rifugia con la famiglia nella Turris Maior, l’inespugnabile fortezza in cima al monte Bonadies, dove tenta l’ultima disperata difesa; Roberto non ha fretta, sa che riuscirà a prendere anche lui per fame. Per qualche tempo riescono a tirare avanti, grazie al cibo che Sichelgaita, tramite le sue sorelle, invia nella rocca, ma sono tutti allo stremo delle forze; il principe tenta l’ultimo disperato tentativo di negoziare. Sichelgaita riesce a fargli ottenere un colloquio con il cognato. Amato di Montecassino, pur ribadendo la “perfidia” di Gisulfo, riporta le sue angosciate parole: «Ora tu mi hai reso lo zimbello del mondo, e sono votato alla distruzione, io e la mia gente. Non dovevi considerare la tua parentela normanna, ma la mia parentela, dato che siamo congiunti. Ora mi vuoi scacciare dall’eredità di mio padre, tu che mi avresti dovuto aiutare a conquistare altre terre.». Roberto, però, non è tipo da farsi commuovere: lui non vuole la pace, vuole che Gisulfo si consegni nelle sue mani come prigioniero, con tutta la sua famiglia, e la rocca; Gisulfo tenta di offrirgli la rocca in cambio della propria libertà, ma Roberto è irremovibile. A Gisulfo non rimane così altra scelta che consegnarsi con tutta la sua famiglia al cognato, deve sottostare perfino all’estrema umiliazione di consegnargli di persona la preziosa reliquia del dente di San Matteo. Il Guiscardo ha intenzione di caricarlo su una nave e portarlo in catene a Palermo, e tenerlo lì prigioniero per il resto dei suoi giorni. È ancora una volta grazie a Sichelgaita se le cose vanno diversamente per Gisulfo: la duchessa gli fa dare dal marito mille bisanti d’oro, cavalli e muli, permettendogli così un esilio decoroso. Il principe spodestato, allora, si rifugia prima da Riccardo principe di Capua, e poi da papa Gregorio VII, che lo accoglie come un figlio e lo nomina amministratore dei beni della Chiesa.

Il re - pezzo della scacchiera detta

Il re – pezzo della scacchiera detta “di Carlo Magno” – Italia meridionale, 2a metà dell’XI sec. – Parigi, BnF.

Il signore dell’Italia Meridionale è ormai Roberto d’Altavilla: un dominio che va dall’Abruzzo alla Sicilia, e di cui Salerno è una delle città più importanti, se non la più importante in assoluto: una città che, a questo punto, può fare un grosso salto di qualità. Tra l’altro questa è l’epoca di Costantino l’Africano, che dal Nord Africa fatimida importa preziosissimi testi di medicina araba e li traduce in latino, dando di fatto una marcia in più a quella che già era conosciuta come la “città della salute”. Una città, però, in cui Roberto è entrato da conquistatore, con la forza, scalzando il legittimo sovrano, e a ragione Guglielmo di Puglia considera il popolo salernitano “inaffidabile”, d’altronde è pur sempre un popolo sottomesso: Roberto è costretto, per sicurezza, a spostare il centro del potere dal Sacratissimum Palatium di Arechi (San Pietro a Corte) più in alto, al più strategico Castel Terracena, che il duca fa costruire nel quartiere della nuova aristocrazia normanna, Vico Ortomagno.
Mai come in questo momento Roberto ha bisogno dell’aiuto della moglie Sichelgaita: è lei l’anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo, tra gli spodestati principi longobardi e il nuovo duca normanno. Infatti molte donazioni fatte da Roberto in questo periodo, soprattutto alla potentissima abbazia di Cava dei Tirreni, portano anche il nome di Sichelgaita, la cui famiglia aveva protetto quel monastero da generazioni. Ancora una volta, però, è negli archivi papali che troviamo l’indizio più interessante del ruolo di Sichelgaita: una lettera di Gregorio VII all’arcivescovo Alfano, nella quale il pontefice esprime la sua gioia per il fatto che, durante i lavori per la costruzione della cattedrale nuova di zecca voluta da Roberto, siano state trovate le reliquie dell’apostolo Matteo; ebbene, alla fine della lettera, quando raccomanda che il duca si mostri degno di avere un apostolo in casa, non manca di citare la sua “nobilissima sposa”. Forse dobbiamo ammettere che un po’ del merito della risonanza mediatica data fin da subito alla notizia sia anche merito di Sichelgaita e dei suoi canali, l’abate Desiderio in primis? Tanto più che, proprio quell’anno, l’accordo di Ceprano sancisce la pace definitiva tra il papa e il Guiscardo, con la revoca della scomunica e il riconoscimento della legittimità del dominio del duca delle Puglie e delle Calabrie su Salerno.
D’altronde Sichelgaita stessa è proprietaria, per diritto ereditario, di vasti territori, alla foce del Sele e sulla Costiera Amalfitana, che si aggiungono al suo dovario, le terre donatele dal marito in Calabria; è dunque una potente signora di suo, responsabile di terre proprie e di uomini che rispondono direttamente a lei. Con queste premesse, possiamo capire perché la duchessa, come riporta Anna Comnena, «era solita accompagnarlo nelle campagne militari», ad esempio in Puglia, contro la rivolta del conte Amico di Giovinazzo, durante la quale, mentre Roberto riconquista Taranto, Trani viene espugnata da sua moglie. La cosa non deve stupirci, fa parte delle consuetudini che i Normanni hanno portato dalla Francia: la moglie di un signore divide con lui il potere, e proprio per questo dev’essere pronta a tutto, specialmente quando si tratta di farne le veci. Succede anche ad Adele di Normandia, nel momento in cui il marito Stefano, nel 1095, rispondendo alla grande chiamata di Urbano II, imbraccia le armi e si unisce alla spedizione per liberare il Santo Sepolcro: il cronachista Orderico Vitale ci dice che «governò onorevolmente il dominio di suo marito», cioè Adele, in quel momento, è a tutti gli effetti il signore feudale di Blois, Chartres e Meaux, e dunque ispeziona i suoi domini, fa da giudice nelle controversie, difende la Chiesa. Il solito Orderico ci informa che, all’occorrenza, assume anche le vesti di comandante militare, quando invia un centinaio di cavalieri ad aiutare il co-reggente Luigi di Francia; non che fosse presente anche lei sul campo di battaglia, ma sappiamo che è effettivamente capitato ad alcune nobildonne di quegli anni, come nel caso del conflitto tra Elvise di Evreux e Isabella di Tosny, nel quale entrambe le contesse si presentano sul campo di battaglia, a fianco dei rispettivi mariti, armate di tutto punto, tanto che per descriverle, Orderico Vitale tira in ballo la Camilla dell’Eneide e tutte le regine delle Amazzoni.

La Pudicizia - miniatura dalla

La Pudicizia – miniatura dalla “Psicomachia” di Prudenzio, Inghilterra, XI sec. – Londra, B.L.

Un episodio in particolare documenta questo particolare aspetto di Sichelgaita, ed è narrato molto nei dettagli dai cronachisti: la guerra contro l’Impero d’Oriente. Nel 1078, l’imperatore Michele VII Ducas viene costretto ad abdicare da una rivolta capeggiata dal generale Niceforo Botianate, e ad entrare in monastero; suo figlio Costantino viene comunque associato al trono dal nuovo basileus Alessio I Comneno, a condizione che sposi sua figlia Anna. Il guaio è che Costantino era stato promesso fin dalla culla ad Olimpiade, figlia di Roberto e Sichelgaita; di conseguenza il fidanzamento viene rotto, e la povera fanciulla, ormai chiamata Elena dai Romei, viene relegata in un monastero. È un affronto che Roberto, e soprattutto Sichelgaita, non sono disposti ad accettare: la stessa Anna (che pure non diverrà mai imperatrice), molto tempo dopo, nella sua Alessiade, sottolineerà il fatto che sia stata proprio Sichelgaita a spingere il marito a muovere guerra a Costantinopoli. Roberto dunque, sventolando come un vessillo il diritto della figlia alla dignità imperiale e, soprattutto, la scomunica che Gregorio VII aveva lanciato sul Comneno, considerato dal papa un usurpatore, salpa con una grandiosa flotta alla volta della Grecia: al suo fianco ci sono il primogenito Boemondo e la moglie Sichelgaita, che lo raggiunge ad Otranto (probabilmente al comando dei suoi uomini) e viene accolta dal marito con un abbraccio. Una volta conquistata Corfù, le truppe normanne puntano verso Durazzo; Alessio Comneno, da parte sua, mette in campo una coalizione imponente formata dai Turchi Selgiuchidi, dal re di Germania Enrico IV e dalla Repubblica di Venezia. Soprattutto quest’ultima si rivela molto preziosa, e le sue navi infliggono al duca Roberto una sonora sconfitta; ora, però, l’esercito bizantino, troppo instabile e raffazzonato, deve fare i conti con la battaglia di terra, un campo in cui i Normanni si trovano decisamente più a loro agio. Durazzo è cinta d’assedio nel giugno del 1081; i Romei riescono tener testa, grazie al “fuoco greco”, una micidiale miscela di nafta e pece che, “sparata” da apposite pompe, manda in fumo le macchine d’assedio normanne; d’altra parte, però, i Normanni hanno bloccato i rifornimenti e Durazzo non può resistere ancora per molto.
Si arriva così alla grande battaglia finale, il 18 ottobre 1081: la coalizione bizantina comandata dall’imperatore Alessio in persona da una parte, dall’altra l’esercito normanno con alla testa Roberto e il figlio Boemondo. Guglielmo di Puglia descrive in modo molto vivo ed efficace la violenza dello scontro: le forze dei Greci sono nettamente superiori, e i Normanni sono talmente disorientati da essere sul punto di fuggire, ma Roberto si dimostra ancora una volta condottiero e guerriero formidabile, esortando i suoi e scagliandosi in prima linea, con innestato nella lancia il Vexillum Sancti Petri, il “Vessillo di San Pietro”, donatogli dal papa in persona. Sichelgaita, dal canto suo, non se ne sta con le mani in mano: Anna Comnena (che certamente avrà avuto notizie di prima mano dal padre, presente sul campo di battaglia) la inquadra, a cavallo, armata di cotta di maglia, elmo e scudo, «come un’altra Pallade, se non una seconda Atena», mentre, vedendo i guerrieri ritirarsi, forse proprio quelli al suo comando, grida loro: «Dove fuggite così? Fermatevi! Siate uomini!» E, senza esitazione, afferra una lancia e si catapulta al galoppo contro i Greci, nel bel mezzo della mischia; una freccia supera la cotta di maglia e la ferisce, rischia perfino di esser fatta prigioniera; e un tale coraggio da parte della loro signora non può non colpire nel segno i suoi uomini, che si rianimano e si ributtano nella mischia, più focosi che mai. Il risultato è che le truppe del Comneno vengono spazzate via, anche per la fuga degli alleati turchi e l’abbandono dei manipoli dalmati. Guglielmo di Puglia commenta così l’intervento della duchessa: «Iddio, non volendo che fosse umiliata una donna così nobile e degna di rispetto, la salvò».

Sepolcro di Gregorio VII - Cappella di S. Gregorio VII, abside a sinistra dell'Altare Maggiore - Salerno, cattedrale.

Sepolcro di Gregorio VII – Cappella di S. Gregorio VII, abside a sinistra dell’Altare Maggiore – Salerno, cattedrale.

Roberto prosegue dunque deciso verso Costantinopoli, ma i suoi progetti vengono improvvisamente stravolti: nel febbraio del 1082 viene raggiunto da una lettera di papa Gregorio VII. Si tratta di una drammatica richiesta di aiuto: il pontefice è prigioniero a Roma, sotto l’assedio del nuovamente scomunicato Enrico IV di Germania, che è piombato in Italia con l’esplicita intenzione di tirare Gregorio giù dal soglio di Pietro (come aveva fatto più di uno dei suoi predecessori) e di farsi incoronare imperatore da un nuovo papa più compiacente.
Roberto dunque, anche se un po’ controvoglia, rientra in Italia insieme a Sichelgaita, lasciando Boemondo a capo della spedizione in Oriente. Solo in aprile, però, non sembra avere fretta: sa benissimo che Alessio Comneno sta approfittando della situazione per finanziare Enrico e metterlo così sotto scacco. Quando arriva a Roma, questa volta accompagnato da Ruggiero, con 7.000 cavalieri e 30.000 fanti, la frittata è già bell’e fatta: Gregorio VII è intrappolato in Castel Sant’Angelo, e sulla cattedra di Pietro, Enrico IV ha imposto un antipapa, Clemente III (Guiberto da Correggio, arcivescovo di Ravenna), da cui si è fatto incoronare imperatore.
La battaglia all’ultimo sangue con l’Imperatore di Germania da tutti attesa, però, non ha luogo, Enrico e i suoi uomini si ritirano verso nord, e Roberto sembra lasciare loro tutto il tempo di ritirarsi: uno scontro diretto non conviene a nessuno dei due. E tuttavia Roberto sa che questa non sarà un’entrata trionfale ma una vera e propria operazione militare: Roma ha già dovuto subire un assedio, e il popolo che, esausto e sobillato dalla nobiltà romana, ha aperto le porte al re di Germania sapendo di essere lasciato in pace, non si aspetta certo che i feroci Normanni facciano lo stesso. I Normanni, dunque, agiscono di conseguenza: espugnano Roma come una città nemica, spazzano via la resistenza, mettendo a ferro e fuoco la città per tre giorni, con massacri d’indicibile violenza, sotto gli occhi dell’impotente Gregorio VII. Per il papa, al danno di avere le mani legate di fronte a quella tragedia si aggiunge anche la beffa di esser considerato dalla sua città il colpevole di tutto, e di esser costretto ad abbandonarla.
Non gli rimane dunque altra scelta che seguire Roberto e Ruggiero a Salerno, alla stregua di un esiliato; esiliato, ma non fuori gioco, questo mai. Anzi, Salerno, accogliendo il pontefice, diventa essa stessa una specie di “nuova Roma”; a cominciare dalla cattedrale consacrata proprio da Gregorio (anche se solo parzialmente completata), la cui architettura richiama così tanto quella della basilica di San Pietro in Vaticano. Proprio dall’abside di quella cattedrale, alla fine del 1084, sulla cattedra i cui pannelli d’avorio intagliati ancora oggi si possono ammirare al Museo Diocesano, Gregorio presiede l’ultimo sinodo della sua vita, alla fine del quale promulga un’enciclica dal tono amareggiato ma irremovibile, dove scomunica per l’ennesima volta imperatore e antipapa. È il suo ultimo grido di battaglia, prima della morte, nel maggio del 1085.

Le autorità temporali - il signore e il suo erede - miniatura dall'Exultet di Capua, XI-XII sec.

Le autorità temporali – il signore e il suo erede – miniatura dall’Exultet di Capua, XI-XII sec.

Avere il vicario di Cristo in casa è d’altra parte una ghiotta occasione anche per la ormai quasi cinquantenne Sichelgaita, soprattutto per ottenere quello cui ambisce da sempre, che sia Ruggiero, e non Boemondo, a divenire il prossimo duca delle Puglie e delle Calabrie: sarebbe il modo migliore soprattutto per mettere d’accordo i nobili longobardi e normanni, dato che Ruggiero ha nelle vene il sangue di entrambi. Il problema è che una parte non trascurabile dei vassalli normanni parteggia per Boemondo, soprattutto perché, a differenza di Ruggiero, si è dimostrato un valoroso condottiero e combattente.
Orderico Vitale ci racconta in proposito un episodio molto intrigante, anche se molto controverso: Sichelgaita avrebbe tentato addirittura di togliere di mezzo Boemondo avvelenandolo, con la compiacenza degli “archiatri salernitani”. Roberto, però, scoperto il fattaccio, avrebbe minacciato di morte la moglie e tutti i medici di Salerno se non avessero fermato il veleno; alla terrorizzata Sichelgaita non sarebbe così rimasta altra scelta che far somministrare l’antidoto a Boemondo, il quale tuttavia avrebbe conservato per tutta la vita i segni di quella brutta avventura, con il pallore che d’allora in poi gli avrebbe coperto il volto. Che questo episodio sia realmente accaduto o meno, e per quanto possa farci inorridire, qualunque uomo di potere dell’epoca l’avrebbe considerato un ottimo modo per risolvere la questione; purtroppo l’omicidio politico (compreso quello dei parenti) fa parte delle dure regole del gioco, che la stessa Sichelgaita ha d’altronde sperimentato sulla propria pelle. Chissà se la duchessa non sia riuscita perfino a tirare per la casula il papa in questa storia. Sia come sia, alla fine si riesce a salvare capra e cavoli, almeno sulla carta: l’Italia meridionale andrà a Ruggiero, i possedimenti in Grecia a Boemondo.

Sepolcro degli Altavilla - tomba di Roberto il Guiscardo e dei suoi fratelli  Guglielmo, Umfredo e Drogone. - Venosa, chiesa antica della SS. Trinità - fine XI sec., affresco XV sec.

Sepolcro degli Altavilla – tomba di Roberto il Guiscardo e dei suoi fratelli Guglielmo, Umfredo e Drogone. – Venosa, chiesa antica della SS. Trinità – fine XI sec., affresco XV sec.

D’altronde, nonostante tutto, Roberto ha grandi ambizioni per questo suo primogenito che così tanto gli somiglia (a differenza di Ruggiero), e che ha tutte le doti per conseguirle. Così, appena può, nell’autunno del 1084, s’imbarca nuovamente ad Otranto alla volta della Grecia insieme a lui, agli altri tre figli maschi Ruggiero, Guidone e Roberto, e alla moglie Sichelgaita, per proseguire la campagna militare; ha ormai quasi settant’anni, ma la cosa non sembra importargli granché, e, insieme a Boemondo riesce a riconquistare Corfù, tolta ai Normanni nel frattempo dalla coalizione bizantino-veneziana. E invece c’è un nemico che il Guiscardo non ha messo in conto: la peste. Una vera e propria epidemia colpisce l’esercito normanno, e anche la tempra indomabile di Roberto è costretta a cederle. Nemmeno le cure della esperta Sichelgaita possono nulla, la peste non perdona: il duca delle Puglie e delle Calabrie Roberto d’Altavilla muore a Cefalonia, il 17 luglio del 1085. Viene deposto nel sepolcro di famiglia, nel monastero della SS. Trinità di Venosa.
Nello stesso anno muoiono papa Gregorio e l’arcivescovo Alfano.
Guglielmo di Puglia descrive la morte del Guiscardo con tinte molto drammatiche; in particolare si sofferma nel dipingere una Sichelgaita disperata, che si lacera la faccia con le unghie e si strappa i capelli gridando con toni da tragedia greca: «Oh che dolore! Che farò io infelicissima o dove potrò trovare rifugio io sventurata? Forse  che i Greci, appresa la notizia della tua morte, non vorranno assalire me, tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo eri gloria, speranza e forza, e che con la tua presenza hai protetto anche in situazioni disperate? […] O empia morte, ti prego, risparmia quest’uomo che morendo ne farà perire tanti altri; ma poiché tu non sai esaudire le preghiere, dagli almeno il tempo di ricondurci nelle nostre terre, perché un luogo sicuro ci accolga dopo la sua morte. Ahimè infelice! Invano io supplico costei che è stata sempre spietata con chi la supplicava e non ha mai risparmiato nessuno»

La regina – pezzo della scacchiera detta “di Carlo Magno” – Italia meridionale, 2a metà dell’XI sec. – Parigi, BnF.

Dobbiamo dunque immaginare Sichelgaita vedova come una donna finita, che ha ormai esaurito tutte le sue energie, chiusa nel suo dolore e magari in un monastero?
Nemmeno per idea!
Ora le redini delle Puglie e delle Calabrie sono nelle sue mani, e sa di dover fronteggiare l’inevitabile esplosione della rivalità tra Boemondo e Ruggiero per l’eredità di Roberto. I documenti che abbiamo del suo periodo di reggenza, d’altronde, la qualificano come dux, duca, al maschile: ella è dunque il successore di Roberto a pieno titolo, indipendentemente dal figlio. Anche Adele di Normandia, dopo la morte del marito Stefano, appare a tutti gli effetti come signora feudale dei domini del marito, anche se il suo primogenito Tebaldo è ormai adulto; i suoi vassalli si rivolgono a lei come alla domina, e il vescovo Ivo di Chartres chiama il suo governo principatus.
Il primo atto da dux di Sichelgaita, perché tutti capiscano una volta per sempre chi sia l’erede, applicando un’usanza squisitamente longobarda, è associare Ruggiero al potere. La cosa, però, non piace per niente ai Normanni duri e puri, che vedono nel carismatico Boemondo un più degno successore del Guiscardo. Boemondo dunque, spalleggiato dal principe Giordano di Capua, si rivolta contro il fratello minore conquistando Oria e mettendo a ferro e fuoco Taranto e Otranto.
All’improvviso, però, ecco un colpo di scena: il 24 maggio del 1086, l’abate Desiderio di Montecassino, il cugino e il più grande alleato di Sichelgaita, viene eletto papa con il nome di Vittore III. E, proprio grazie alla sua mediazione, si arriva ad un primo accordo: Boemondo ottiene la Puglia sudoccidentale, da Coversano fino a Gallipoli, insieme al titolo di principe di Taranto, in cambio della rinuncia agli altri possedimenti in Italia e alla successione.
La morte del pontefice il 16 settembre 1087, però, rompe per l’ennesima volta gli equilibri, e Sichelgaita e Ruggiero vedono Maida e Cosenza conquistate da Boemondo e dai suoi alleati .
Ci vorrà una mano ferma come quella del nuovo papa, Urbano II (al secolo Eudes di Châtillon) per mettere una volta per tutte la parola fine al conflitto: nel 1089 il papa conferma a Boemondo il principato di Taranto e le città di Maida e Cosenza (che Boemondo cede a Ruggiero in cambio di Bari) e investe ufficialmente Ruggiero del titolo di duca di Puglia.
Il sogno di Sichelgaita si è finalmente avverato: attraverso suo figlio Ruggiero, la stirpe dei principi longobardi è tornata a regnare su Salerno, più splendida e ricca che mai.
Ora può morire, il 27 marzo del 1090, e trovare la pace nell’abbazia che il papa suo cugino aveva per tanto tempo governato: Montecassino.

Pubblicato su Citizen Salerno – Biografia di Sichelgaita – principessa colta e guerriera, nella Salerno dell’XI secolo.

Bibliografia:
Patricia Skinner, «Halt! Be Men!»: Sikelgaita of Salerno, Gender and the Norman Conquest of Southern Italy, in “Gender and History”, Oxford 12, 3 (2000);
Id., Daughters of Sikelgaita: the women of Salerno in the twelfth century, in “Salerno nel XII secolo. Istituzioni, società, cultura. Atti del Convegno Internazionale – Raito di Vietri sul Mare – Auditorium di Villa Guariglia – 16/20 giugno 1999”, a cura di Paolo Delogu e Paolo Peduto, Provincia di Salerno, Centro Studi Raffaele Guariglia, 2004;
Valerie Eads, Sichelgaita of Salerno: Amazon or Trophy Wife?, in “Journal of Medieval Military History”, 3 (2005), pp. 72–87.
Guglielmo di Puglia, Le gesta di Roberto il Guiscardo, introduzione, traduzione e note di Francesco de Rosa, Cassino, Francesco Ciolfi Editore, 2003;
Amato di Montecassino, Storia dei Normanni, traduzione di Alberto Tamburrini, Cassino, Francesco Ciolfi Editore, 1999;
Roberto il Guiscardo e il suo tempo: atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), a cura del Centro di studi normanno-svevi, Università di Bari, Bari, Edizioni Dedalo, 1991;
I caratteri originari della conquista normanna: diversità e identità nel Mezzogiorno, 1030-1130: atti delle sedicesime Giornate normanno-sveve, Bari, 5-8 ottobre 2004, a cura di Raffaele Licinio e Francesco Violante, Bari, Edizioni Dedalo, 2004;
Kimberley A. LoPrete, Adela of Blois: Familial Alliances and Female Lordship, in “Aristocratic Women in Medieval France”, a cura di Theodore Evergates, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1999.

 

Informazioni su Mercuriade

Buongiorno a tutti! Sono una paleografa con la vocazione per la scrittura e il pallino del Medioevo e delle sue storie. Amo la lettura, la buona musica, la poesia, la filosofia, l'arte, il cinema: in breve, qualunque espressione del buono, del bello e del vero. Nel 2011 ho vinto l'VIII edizione del premio letterario "Il racconto nel cassetto" con il racconto "Il Tamburo delle Sirene", pubblicato dalla Centoautori in "Il Tamburo delle Sirene e altri racconti" (2012). Ho collaborato con il sito di Radio CRC e con il giornale on-line "Citizen Salerno" e ora collaboro con la rivista on-line "Rievocare". Faccio parte del gruppo di living history "Gens Langobardorum" e come rievocatrice indipendente promuovo la Scuola Medica Salernitana, gloria della mia città. Nel 2020 ho pubblicato con la Robin "Mulieres Salernitanae. Storie di donne e di cura".
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11 risposte a Sichelgaita: la Pallade longobarda

  1. ago86 ha detto:

    “Aggiunse che avrebbe divorziato da Alberada, da cui aveva avuto Boemondo” questo passaggio e una risposta che ho ricevuto da una persona specializzanda in storia medievale (risposta reperibile http://unapennaspuntata.wordpress.com/2012/04/22/convivenza-san-callisto/#comments ) mi sollevano a prima vista alcune perplessità sulla disciplina del matrimonio nel corso della storia della Chiesa. C’è stato un cambiamento radicale nella sostanza del matrimonio oppure no?

    • mercuriade ha detto:

      Nel caso di Roberto si è trattato di annullamento del matrimonio. In effetti non era valido fin dall’inizio, dato che Alberada era sua zia; e la Chiesa proibiva i matrimoni fino al settimo grado di parentela.
      Era un trucchetto adottato dalla grande maggioranza della nobiltà dell’epoca, “ricordarsi” che il matrimonio non era valido “per causa di parentela” quando non faceva più comodo per motivi politici o altro.
      Vi ricorrerà anche Eleonora d’Aquitania…

  2. michele brocca ha detto:

    Esiste ancora la tomba di Sichelgaita? C’è, a Salerno, una lapide o una statua che la ricordi? Grazie infinite.

    • mercuriade ha detto:

      Secondo il cronachista Amato, Sichelgaita si fece seppellire a Montecassino. Di conseguenza, la sua tomba è stata distrutta insieme a tutto il resto dagli Alleati nel 1944.
      A Salerno non c’è niente. Si può dire che l’unica traccia di lei sono i resti di Castel Terracena, il nuovo castello che il Guiscardo iniziò a costruire, forse proprio su suggerimento di Sichelgaita. Ma anche questi sono molto labili, confusi nel caseggiato.

  3. maschileindividuale ha detto:

    bella scoperata questo blog. lo seguiroò. saluti dalla valle del sele.

  4. Pingback: IL LIBRAIO DEL MALATESTA. Libri e consigli sulla storia

  5. Pingback: Tutta la verità sulle principesse

  6. Stefania Bertone ha detto:

    Sono appassionatissima di storia antica e medievale…Ho scoperto questo blog, è interessantissimo!

  7. Fabio ha detto:

    Se può essere utile allego l’originale e la traduzione in italiano della donazione che nel 1086 Sichelgaita fece della città di Cetraro (CS) avendola avuta in dote dal marito al monastero di Montecassino per mano dell’Abbate Desiderio.
    CITRARIUM CASSINATIBUS DONATUM

    In nomine sanctae, et individuae Trinitatis. Ego Sikelgaita divina favente clemencia Dux. Si divinum cultum, et sanctae ecclesiae honorem, atque utilitatem debita reverentia, et ordine digno attendimus, tota profecto devotione circa sanctam Dei ecclesiam diligentissimam curam, et solacium adhibere debemus, ut tanto nos superna pietas gracius protegat, quanto ferventius suam ecclesiam pro viribus exaltare, atque tueri satagimus. Idcirco pro amore omnipotentis Dei, et Domini nostri Jesu Christi, et pro salute animae domini viri mei Robberti gloriosi Ducis, atque meae filiorumque nostrorum, et omnium parentum per interventum, atque consensum filii mei Roggerii Ducis offero in monasterio S. Benedicti de monte Casino locum, qui Cetrarius dicitur cum toto portu suo, et cum omnibus pertinentiis suis, atque universis colonis ibidem habitantibus, quod in dotem a praedicto viro meo habeo, atque per manus domini Desiderii Abbatis, eo modo illud in praedicto monasterio, cui ipse Abbas praeest, offero, ut per totam vitam meam ad frudiandum eum habeam, atque post meum obitum in praescripto monasterio absque omni calumnia meorum haeredum ac successorum nostrorum perveniat, et praefatus Abbas ejusque successorum nostrorum perveniat, et praefatus Abbas ejusque successores, et pars ipsius monasterii licentiam habeant de eo facere quod voluerint, et neque a nobis, neque a nostris heredibus, seu judicibus, Comitibus Turmarchus, neque a quibuslibet auctoribus nostrae reipublicae praedictus Abbas, ejusque successores, et pars ipsius ecclesiae quolibet tempore de eo aliquam contrarietatem habeant, sed in perpetuum secure illud habeant, et possideant ad faciendum ex eo ad utilitatem ipsius monasterii sicut supra scriptum est, quodcumque voluerint. Quod si ego, aut heredes mei, vel alius aliquis temerario ausu hujus meae oblacionis aliquando violator extiterit perpetuo anathematis subjaceat, et partem cum Juda traditore Domini habeat, sciatque se compositurum auri purissimi libras centum, medietatem Camerae nostrae, et medietatem parti ipsius monasterii, et insuper haec oblacio semper firma, et incocussa permaneat.
    Textum vero hujus nostrae oblationis scribere praecepimus tibi Petro Medico, et palatii nostri notario.
    Anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo octuagesimo sexto indictione nona.
    Actum Salerni feliciter.
    Ego Alfanus Electus Sanctae Sedis Salernitanae.
    Ego Urso Dei gratia Archiepiscopus Sanctae sedis Canosinae, et Barinae.
    Ego Maraldusus Festanus episcopus.
    Ego Ruggerius Dux.
    Ego Robbertus frater ejusdem Ducis.

    CETRARO OFFERTO AI CASSINESI

    In nome della santa indivisibile Trinità. Io Sikelgaita duchessa col favore della divina clemenza. Se osserviamo il culto divino, oltre che l’onore e l’utilità della santa chiesa, con dovuto rispetto e con adeguata disposizione e con tutta la devozione per la santa chiesa di Dio, dobbiamo mostrare massima sollecitudine e prestare tutta la nostra opera, affinché la suprema giustizia ci protegga tanto più benevolmente quanto più fervidamente ci adoperiamo, secondo le proprie forze, per esaltare e difendere la sua chiesa. Perciò, per amore di Dio onnipotente, di nostro Signore Gesù Cristo, per la salvezza dell’animo del mio signore e consorte Roberto, glorioso duca, per la salvezza dell’anima mia e quella dei nostri figli e dei nostri congiunti, con il benestare e il consenso di mio figlio, il duca Ruggero, offro al monastero di S. Benedetto di Montecassino la località che si chiama Cetraro con tutto il suo porto e con tutte le sue pertinenze, nonché tutti i coloni ivi abitanti, cose che io ho in dote dal mio consorte e, tramite il Signore Abate Desiderio, offro tutte al summenzionato monastero, che lo stesso Abate presiede, con la riserva che per tutta la mia vita io ne abbia l’usufrutto e dopo la mia morte passino al predetto monastero, senza alcuna cavillosa pretesa da parte dei miei eredi e dei miei successori. Il suddetto Abate e i suoi successori e la parte dello stesso monastero facciano di questa località ciò che vogliano e né da parte nostra o dei nostri eredi, né da parte dei giudici o dei Conti Turmarchi, né da parte di qualsiasi autorità del nostro Stato, il summenzionato Abate, i suoi successori e la parte della stessa chiesa, in qualunque tempo, abbiano, relativamente ad essa, alcuna contrarietà, ma la posseggano per sempre, tranquillamente, per ottenerne tutto ciò che desiderano per l’utilità dello stesso monastero, come sopra è stato detto.
    Se poi io o i miei eredi o qualche altro, con temerario ardire, vorrà un giorno violare questa mia offerta, sia maledetto in eterno, sia condannato con Giuda, traditore del Signore e sappia che pagherà cento libbre d’oro purissimo, di cui metà alla nostra Camera e metà alla parte dello stesso monastero e inoltre questa mia offerta resterà sempre ferma e indiscussa.
    Abbiamo ordinato a te Pietro Medico, notaio del nostro Palazzo, di scrivere il testo di questa nostra offerta.
    Nell’anno 1086 dall’incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, nona indizione.
    Redatto felicemente in Salerno.
    Io Alfano Eletto della Santa Sede Salernitana.
    Io Urso, per grazia di Dio Arcivescovo della Santa sede Canosina e Barese.
    Io Maralduso vescovo Festano.
    Io Duca Ruggero.
    Io Roberto, fratello dello stesso Duca.

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