Carità e assistenza nel Medioevo. Dio, l’uomo e l’altro

di Andrea Martignoni

Andrea Martignoni ha sostenuto nel 2007 una tesi di dottorato in Storia Medievale alla Sorbona di Parigi intitolata “Mots et gestes de la foi. Une anthropologie religieuse du Frioul a’ la fin du Moyen Age”. E’ attualmente docente di ruolo all’Institut catholique di Parigi e  dottore di ricerca alla Sorbona di Parigi. S’interessa da una parte al rapporto tra medicina e spiritualita’ alla fine del Medioevo e dall’altra alla funzione e al ruolo delle immagini sacre nello spazio urbano medievale (Italia e Nord Europa).

Giotto, La Carità – affresco dalla Cappella degli Scrovegni, Padova.

Troppo spesso ancora oggi il Medioevo viene percepito come un lungo periodo di oscurità, di brutalità, un intermezzo infelice della nostra storia. Eppure quei secoli, pensati e ripensati come bui e tenebrosi, non lasciano mai indifferenti; o affascinano ed interrogano o forse, purtroppo, ci fanno comodo, in un’epoca come la nostra, complessa e tormentata, in cui l’aggettivo «medievale» viene usato per descrivere crimini e sciagure che dissanguano il mondo.
Ogni periodo storico, lungo o corto che sia, contiene le sue luci e le sue ombre in un alternarsi di rotture e continuità, di passi positivi e di passi sbagliati. Il Medioevo, che è, vale la pena di ricordarlo, un periodo che copre mille anni della nostra storia, non si limita dunque ad un solo passato di violenza, di atrocità e di ingiustizie, ma si rivela anche come un mondo in cui l’amore, la felicità, la musica, la poesia, le lettere e le arti, il progresso tecnologico e nuove sperimentazioni hanno avuto modo di svilupparsi e di fiorire. E’ nel Medioevo, tra l’altro, che si devono cercare le radici dello stato moderno, che il pensiero teologico, da Sant’Agostino a Tommaso d’Aquino, per citare due nomi ben conosciuti, fa passi da gigante nel parlare di Dio, che la filosofia raggiunge, da Abelardo a Pico della Mirandola, una significativa profondità di pensiero. In nome di Dio, gli uomini hanno costruito chiese e cattedrali così alte e sontuose da toccare il cielo, hanno elaborato un complesso sistema liturgico per comunicare con lui e per dare corpo alla comunità dei credenti. Come scrive di recente in un libro importante lo storico francese Dominique Iogna-Prat [La Maison Dieu. Une histoire monumentale de l’Eglise au Moyen Age (v. 800-v. 1200), Paris, Seuil, 2006], durante questi secoli Dio si é fatto pietra, gli uomini gli hanno dato un luogo, una casa, un edificio. Il termine ecclesia, che nei primi secoli dopo Cristo significava l’assemblea dei credenti che si riunivano per pregare nascosti in grotte, case o cantine, ora significa chiesa, il tempio di pietre, la casa di Dio.
Un grande sforzo è stato ancora compiuto per definire il senso, attraverso la lettura costante della parola rivelata nel Vangelo e l’esegesi, del cammino nel mondo, di quel transito che ognuno è chiamato a compiere sulla terra prima dell’incontro ultimo con la luce divina, prima della vera vita, per i cristiani, da trascorrere nel grembo del Padre. Ciò che dà senso a questo cammino è l’amore, sorgente di ogni cosa, amore di Dio e amore dell’altro, del prossimo. Ed è questo amore che si traduce nella carità.
In quest’ottica, il Medioevo è un periodo importante. Da una parte, in effetti, il pensiero evangelico viene interpretato e trasmesso al popolo dai predicatori che vanno di città in città diffondendo la buona novella, insegnando alla gente i valori fondamentali del cristianesimo. Il XIII secolo costituisce una tappa fondamentale. La nascita degli ordini mendicanti, francescani e domenicani in primo luogo, contribuisce all’evangelizzazione delle città attraverso la parola, la pastorale, la predica. E uno degli insegnamenti principali destinati ai fedeli è proprio l’importanza della carità. Il buon fedele appare come colui che durante tutta la sua esistenza si prepara, seguendo i precetti evangelici e aderendo all’ortodossia imposta dalla Chiesa, a passare ad altra vita nel nome di Cristo, realizzando quell’alchimia difficile tra un cuore puro e una vita consacrata all’adempimento di opere buone per gli altri.
Le opere – pensiamo ad esempio all’importanza delle elemosine – sono fondamentali all’uomo per testimoniare a Dio e agli altri il suo essere buon cristiano. Ma se non sono il frutto del cuore, di un cuore ricolmo d’amore per Dio e di preghiera, esse non bastano. Come per la preghiera, la buona preghiera, l’azione, in questo caso attraverso una gestualità precisa che va rispettata e ripetuta, inginocchiamento e mani giunte, non serve a niente se nel profondo del cuore non riecheggia l’intenzione giusta.
La carità dunque non si limita alle cose, alle azioni concrete, ma deve sorgere prima di tutto nel cuore dell’uomo. Essa deve riflettere l’unione perfetta tre un’azione caritativa verso l’altro, il povero, l’indigente, l’affamato, il malato e un’azione di cuore animata dall’amore vero, quello senza ritorno, senza orgoglio, senza ricompensa, se non quella della fine dei tempi.
La caritas è uno dei valori centrali della spiritualità cristiana. E’ una delle tre virtù teologali assieme alla speranza e alla fede, virtù che l’iconografia traduce nelle sembianza di una donna che allatta più bambini. Dalle numerose implicazioni, dottrinali, pastorali o sociali, il principio di carità ha nutrito i comportamenti individuali dei credenti, ma ha anche posto le basi della creazione e dello sviluppo di istituzioni di assistenza, ospizi, ospedali, associazioni confraternali. Ed è questa un’altra grande avventura religiosa e sociale che trova le sue origini nel Medioevo e che si protrarrà poi per tutta l’epoca moderna fino ad oggi.

San Martino di Tours dona metà del suo mantello a un povero – particolare da vetrata, cattedrale di Chartres, XII secolo.

Che la carità sia una dinamica verso l’altro compiuta da un singolo individuo, da una collettività o da un governo, poco importa. L’essenziale è l’amore, che ne deve essere assolutamente la fonte. I vangeli sono unanimi e lo ripetono. San Giovanni, per esempio, scrive : «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). La parola chiave è dunque l’amore. San Paolo ricorda a sua volta : «L’amore di Cristo ci spinge» (2 Cor 5,14). L’amore per il prossimo è da considerarsi come il vero frutto dell’amore di Dio che tocca ogni cristiano e lo conduce ad aprirsi all’altro, con generosità e sacrificio. Questa comunione di cuore e di atti è il fondamento della comunità cristiana : «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2, 44-45). Il modello da seguire è quello del buon Samaritano, di colui che ha «un cuore che vede» e che agisce per il bene di chi è nel bisogno (Lc 10, 29-37). Preziose testimonianze dello spirito e della necessità caritativa medievali verso il prossimo ci provengono dai numerosi testamenti che, nel momento del trapasso, costituivano un vero e proprio viatico per l’Aldilà. Uomini e donne dettavano le loro ultime volontà al notaio. Dopo aver evocato la loro fede a Cristo, alla Vergine Maria e a tal o tal altro santo, elencavano i beni che desideravano lasciare ai loro eredi o quelli che volevano offrire ai poveri e agli indigenti, che erano l’immagine di Cristo. Così, letti, armadi, tovaglie o addirittura libri venivano destinati a quelle istituzioni caritative che accoglievano i malati, gli orfani o i poverelli.
I santi sono stati grandi campioni della carità. La fede ha bisogno di modelli. San Martino di Tours († 397), prima soldato poi monaco e vescovo, dette metà del suo mantello ad un povero. Gesù stesso, nella notte, gli appare in sogno rivestito di quel mantello, a confermare quanto egli dice nel Vangelo : «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 36-40). Come san Martino fece con il suo mantello, così fa la gente comune donando i propri beni a chi non ne ha. I più benestanti, in vita o sul punto di morte, non esitavano ad elargire grosse somme di denaro per fondare chiese, cappelle o ospedali. Carlo II d’Angiò, re di Napoli dal 1289 al 1309, si mosse, per esempio, in quest’ottica quando, alla fine del XIII secolo, fondò a Pozzuoli, nel sud Italia, un complesso ospedaliero per la cura dei malati e degli infermi.
Al di là della carità privata e personale, di cui ogni cristiano doveva testimoniare durante la sua vita, la fondazione di ospedali e di istituzioni di assistenza divenne nel corso dei secoli una responsabilità dei governi cittadini. Nel Medioevo dunque, accanto ai monasteri, centri di preghiera, e nelle città, centri di produzione e di consumo, sorgono ospedali, ricoveri, scuole a favore dei poveri. Con la rinascita delle città e l’intensificarsi degli spostamenti, i governi cittadini istituirono alloggi pubblici e ospizi destinati ad accogliere viandanti, pellegrini o bisognosi. Questi luoghi venivano chiamati xenodochi o hospitalia e comprendevano di solito una grande stanza, un dormitorio, un refettorio, e spesso anche una chiesa o una cappella adiacenti alla struttura principale. Erano luoghi in cui, nel nome della carità cristiana, si distribuiva gratuitamente da mangiare, si poteva gioire di un letto, del calore di un fuoco e di qualche cura ambulatoriale.

Capitello delle virtù, dall’Abbazia di Cluny – XII secolo,

«Se uno dei tuoi fratelli che sta dentro le porte della tua città giungerà alla povertà, non indurirai il tuo cuore né contrarrai la tua mano, ma l’aprirai al povero e darai l’aiuto di cui vedrai che ha bisogno» [Annio da Viterbo, 1495-1497]. Il frate domenicano ci ricorda indirettamente lo stretto legame esistente tra l’espansione delle città a partire dal Duecento e le nuove forme di povertà e di indigenza che fiorirono proprio nei nuovi centri urbani. Nelle città, sempre più popolose – a Venezia si contano, alla fine del Medioevo, quasi 150 mila abitanti – si generarono dunque nuove forme di povertà che indussero ad escogitare e a mettere in pratica nuove forme di soccorso ai poveri e di governo della povertà. Vengono allora fondate nuove strutture istituzionali, tra le quali in primo luogo le confraternite, associazioni laiche di devozione dotate di propri ospedali. Le confraternite appaiono, per i laici, come il luogo essenziale dello svolgimento della vita socio-devozionale e della realizzazione della coesione di gruppo. Si tratta di associazioni a scopo devozionale e promotrici del consolidamento, attraverso il principio di solidarietà, del sentimento d’appartenenza identitaria come nell’espressione e nell’inquadramento delle diverse forme devozionali. Il loro ruolo nel vissuto religioso e sociale della collettività soprattutto urbana è fondamentale in quanto motore di una socialità spirituale più intima, rispondendo in maniera concreta al bisogno vitale di solidarietà socio-religiosa. Rette da specifici statuti che ne regolano la vita associativa, esse prevedono per i propri iscritti l’obbligo assoluto di soccorrere, in caso di bisogno, un altro membro della fraternita e l’obbligo di aiutare i più deboli facendo prova di carità. Appare dunque chiaramente che queste associazioni hanno diffuso la carità come norma ideale dei rapporti umani.
Ma le confraternite non sono gli unici attori, all’interno delle città, di questa rete d’assistenza caritativa in pieno sviluppo. Le autorità pubbliche procedono a numerose fondazioni ospitaliere e creano, a partire dal Quattrocento, i cosiddetti monti di pietà, nati come risposta pragmatica ad una povertà di mercato, un’indigenza economica. Queste istituzioni sono il segno evidente di una nuova volontà politica rivolta al sostentamento della società e alla difesa dei più deboli. Un tema, quello dello stato provvidenza, che, oggi come oggi, è di grande attualità. La storia della fondazione di ospedali cittadini appare come una storia della istituzionalizzazione delle attività caritative. L’istituzionalizzazione della carità, ecclesiastica, laica o pubblica, si fonda su un dato di fatto: la povertà sempre maggiore e l’obbligo da parte del cristiano di porvi rimedio con la sua generosità. Si assiste però ad un’evoluzione di rilievo. Se in principio l’elemosina metteva in rapporto diretto il donatore con il povero beneficiario, ora vi è un nuovo intermediario: il potere pubblico e le organizzazioni associative. Una nuova distanza viene dunque a crearsi nell’universo dell’atto caritativo tra l’uomo, Dio e l’altro.
Compiere una piccola elemosina volgendosi direttamente al bisognoso, dare del denaro ad un’associazione caritativa, partecipare ad un progetto edile nel nome della res publica, sono diversi modi per compiere il dovere di cristiano. Ci si assicura così, in fondo, un’efficace redenzione dal peccato e si consolida la speranza di una salvezza grazie alla misericordia divina. E’ la logica del dono e del contro dono, del do ut des, su cui riposa tutta la religiosità medievale.
Rimane il fatto che al di là degli atti misurabili, delle opere e dell’azioni caritative, ciò che più conta è quello che non si vede, ovverosia il cuore dell’uomo. L’amore gratuito infonde speranza e ci apre all’altro con rispetto e generosità. Forse è questa la verità che deve nutrire l’uomo. Il problema si poneva con gravità nel Medioevo, e si pone oggi con uguale urgenza.

La Carità – rilievo dalla cattedrale di Notre-Dame, Parigi. XIII secolo.

Letture complementari:
Le confraternite in Italia fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. De Rosa, Atti della tavola rotonda, Vicenza, 3-4 novembre 1979, in “Ricerche di storia sociale e religiosa”, XVII-XVIII, 1980.
Il buon fedele. Le confraternite tra medioevo e prima età moderna, Vérone, Cierre, “Quaderni di storia religiosa, V”, 1998.
– M. Mollat, I poveri nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1999.
La carità a Milano nei sec. XII-XV, a cura di M. P. Alberzoni e O. Grassi, Milano, Jaca Book, 1989.
– B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1986
– J. P. Gutton, La società e i poveri, Milano, Mondadori, 1977.
– G. Albini, Carità e governo delle povertà (secoli XII-XV), Milano, Unicopli, 2002.
– B. Pullan, Poverty and charity: Europe, Italy, Venice, 1400-1700, Aldershot, Variorum, 1994.
– P. Prodi, La nascita dei Monti di Pietà: tra solidarismo cristiano e logica del profitto, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico”, 8, 1982, pp. 211-224.

da “Caritas Insieme”, anno XXIV, n.3 , 04/12/2007, pp.24-28.

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Buongiorno a tutti! Sono una paleografa con la vocazione per la scrittura e il pallino del Medioevo e delle sue storie. Amo la lettura, la buona musica, la poesia, la filosofia, l'arte, il cinema: in breve, qualunque espressione del buono, del bello e del vero. Nel 2011 ho vinto l'VIII edizione del premio letterario "Il racconto nel cassetto" con il racconto "Il Tamburo delle Sirene", pubblicato dalla Centoautori in "Il Tamburo delle Sirene e altri racconti" (2012). Ho collaborato con il sito di Radio CRC e con il giornale on-line "Citizen Salerno" e ora collaboro con la rivista on-line "Rievocare". Faccio parte del gruppo di living history "Gens Langobardorum" e come rievocatrice indipendente promuovo la Scuola Medica Salernitana, gloria della mia città. Nel 2020 ho pubblicato con la Robin "Mulieres Salernitanae. Storie di donne e di cura".
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