L’equipaggiamento del cavaliere è più semplice di quel che si crede: consiste essenzialmente nella cotta di maglia (usbergo), nello scudo, nell’elmo, e, come armi offensive, nella spada e, se deve affrontare una battaglia in campo aperto, nella lancia. Il sigillo di Giovanni Senza Terra, conte d’Angiò oltre che duca di Normandia, e infine re d’Inghilterra all’inizio del XIII secolo, è molto caratteristico. Se non si vede la cotta di maglia è perché, seguendo l’uso generale dell’epoca, indossa sopra questa un leggero surcotto, un abito simile a una tunica, che impedisce il riscaldamento dovuto al battere dei raggi del sole sulle maglie di metallo.
Niente a che vedere con le armature impressionanti che si vedono di solito nei film: l’armatura composta da piastre di ferro apparirà solo quando ci si dovrà difendere dalle armi da fuoco, dunque nella seconda metà del XIV secolo; la maggior parte di quelle che si vedono nei musei risalgono al XVI secolo, a volte al XVII.
Per quanto riguarda l’Italia Meridionale, si è creduto a lungo che l’usbergo fosse stato introdotto dai Normanni alla fine dell’XI secolo: in realtà, tra i Longobardi, la cotta di maglia aveva soppiantato già da tempo la corazza “lamellare” del tipo che possiamo vedere raffigurato sul Frontale di Agilulfo (VII secolo): un Exultet beneventano oggi conservato alla Biblioteca Vaticana ci informa come l’usbergo fosse utilizzato dai Longobardi già nel X secolo. La ragione della diffusione dell’usbergo di maglia sta senz’altro nei vantaggi che presenta:
- per realizzarla ci vuole una minore quantità di metallo rispetto a una corazza lamellare;
- è relativamente leggera (relativamente, attenzione, il suoi bei 20 kg li pesa comunque!);
- offre una grande libertà di movimento accanto a una discreta capacità di difesa;
- è più pratica da trasportare.
Inizialmente, l’usbergo non costituisce che una sorta di “camicia”; si complicherà soprattutto nel corso del XII secolo, finendo per rivestire tutto il corpo del cavaliere, con un cappuccio per la testa, e delle calze per le gambe. Va da sé che soltanto l’aristocrazia può permettersi una protezione del genere: un usbergo è composto di solito dai 28.000 ai 36.000 anelli, e per realizzarlo occorrono circa 1.000 ore di lavoro! Nel XIII secolo, il cavaliere sarà diventato una vera e propria fortezza umana: sotto la cotta di maglia, porta generalmente una sorta di gilet imbottito che viene chiamato gambeson o bambagione; il piede è molto spesso calzato di ferro (il soleret), come ne è coperta la testa del cavallo (chanfrein).
Quanto all’elmo, la sua forma varia: all’inizio casco conico con il paranaso – pezzo di ferro che protegge il naso – diviene, nel XIII secolo, come quelli che si possono vedere nella cosiddetta Bibbia dei Crociati: una sorta di marmitta a fondo piatto che ricopre tutta la testa. Il viso può esser lasciato scoperto, o protetto anch’esso, caso in cui è praticata un’apertura per gli occhi e dei piccoli fori per permettere la respirazione. A partire dalla fine del XIII secolo, l’elmo sarà sostituito da un elmetto puntuto a larghe tese e più leggero. L’elmo non verrà più portato salvo che nei tornei, e lo si arricchirà di fantasiose creste, piume, ali e teste di animali, a volte giungendo fino alla bizzarria, come in quelle immagini di tornei che ci rivela l’armoriale del Toson d’Oro.
L’arma principale del cavaliere è la lunga spada a doppio taglio, che egli usa nei combattimenti a piedi: fanti e scudieri invece usano la spada a un solo taglio. La sua forma non deriva dal corto gladium romano, ma dalla lunga spatha di origine celtica; diventerà sempre più lunga nel corso dei secoli, fin quando, a partire dal XIV secolo, dovrà essere impugnata addirittura a due mani!
Un grosso problema è stato a lungo la lavorazione della lama. Le spade celtiche erano fatte di ferro non carburizzato, e si piegavano facilmente, tanto che dovevano essere raddrizzate manualmente ogni volta dopo l’uso. Per contro, il corto gladio romano non aveva questo problema perché veniva forgiato con ferro carburizzato e trasformato in acciaio temperato: era dunque più resistente, ma più soggetto a spezzarsi. Era necessario trovare un compromesso.
La soluzione arriva dal cosiddetto acciaio di Damasco, una particolare lega nata probabilmente in India; non è ben chiaro quando sia arrivato in Europa, si trovano esempi di spade damascate risalenti al VII secolo nelle tombe di Cividale del Friuli. Si tratta di una lega ad alto contenuto di carbonio, prodotto da pezzi di ferro sciolti al crogiolo e mescolati insieme che formano una barra d’acciaio lasciata poi raffreddare lentamente. Questo processo è alla base del caratteristico aspetto ondulato che il prodotto finito assume: ovviamente una simile lavorazione è solo per spade di lusso.
Per i combattimenti a cavallo, però, il cavaliere non usa la spada, ma la lancia (o spiedo). Ne esistono vari tipi, con forme diverse di cuspide (punta); alcuni tipi erano dotati anche dell’arresto, alette alla base della punta che impedivano alla lancia di affondare troppo in profondità nel corpo dell’avversario, in modo da poterla estrarre più facilmente e riutilizzarla. Anche i fanti potevano avere in dotazione una lancia, più lunga e leggera di quella di cavalleria.
Lo scudo è un pezzo interessante, perché, da tempi remoti, l’abitudine vuole che, per essere riconoscibile sul campo di battaglia o ai tornei, il cavaliere l’abbia adornato di emblemi e colori simbolici: è il blasone, che all’epoca si chiama insegna. Già lo scudo rotondo altomedievale era composto da legno rivestito di cuoio e rinforzato da piastre di metallo. Lo scudo “a mandorla” verrà introdotto in Italia meridionale solo dai normanni. Inizialmente non è molto grosso, proprio perché deve essere indossato a cavallo, ma con il XII secolo finisce per raggiungere la lunghezza di ben 130 cm, e un peso tale da dover essere portato da un inserviente, che proprio dalla sua mansione di portare lo scudo viene denominato scudiero. Con il XIII secolo, lo scudo tende a rimpicciolirsi di nuovo.
Rispetto all’Alto Medioevo, le piastre metalliche che rinforzano lo scudo assumono forme diverse. Proprio da queste derivano le principali figure che compaiono sugli stemmi nobiliari: il palo, placca posta di lungo; la fascia, posta in orizzontale; la banda e la barra, che l’attraversano in diagonale, la prima da sinistra a destra (partendo dall’alto), la seconda da destra a sinistra; o ancora la croce di Sant’Andrea, e lo scaglione.
O ancora, dagli scudi medievali derivano i due colori che richiamano i metalli, poiché in origine si trattava effettivamente dei pezzi di metallo che fissavano e rinforzavano il rivestimento di cuoio: l’argento e l’oro. Lo stesso rivestimento di cuoio era dipinto. Da qui, i colori degli stemmi, che in quei tempi vengono chiamati smalti e che, una volta stabilizzati i blasoni, saranno fissati al numero di cinque: azzurro, verde, rosso, nero, e infine porpora.
Si è creduto a lungo che il blasone avesse un’origine orientale e fosse stato importato in Europa nel periodo delle crociate. In realtà, i blasoni esistevano già molto tempo prima delle crociate. Già sulla tappezzeria di Bayeux si può constatare che i compagni di Guglielmo il Conquistatore hanno dei grandi scudi distinti da segni: linee ondulate, draghi, ecc., che li distinguono l’uno dall’altro; e si può vedere la stessa cosa nei manoscritti di XI secolo.
L’origine del blasone è certamente molto antica. Sull’arco di Orange, i guerrieri galli sono già rappresentati con degli scudi ornati da segni forse puramente decorativi, come dovevano essere all’inizio, ma che avrebbero finito per diventare i caratteri di un vero e proprio linguaggio, perché le diverse combinazioni di colori e di segni – quelli che nel linguaggio araldico vengono definiti ornamenti – finiscono per designare non soltanto una persona, ma un intero lignaggio, i figli riprendono il blasone paterno, talvolta aggiungendovi un simbolo per mostrare l’alleanza matrimoniale con un’altra famiglia, ecc. Il tutto ha finito per formare, soprattutto a partire dal XV secolo, una vera e propria scienza, l’araldica, che ha ancora oggi i suoi adepti.
Durante il periodo feudale propriamente detto, i blasoni sono molto sobri. Si nota che, in generale, i giovani, appena armati cavalieri, hanno un blasone semplice, detto blasone piano, senza colori distintivi, e sarà solo alla prima impresa che adotteranno questo o quell’ornamento, questo o quel simbolo a loro scelta. Nel XIII secolo, questi simboli cominceranno a fissarsi: è l’epoca in cui il simbolo del re di Francia diviene definitivamente il fiore del giglio: i tre gigli d’oro in campo azzurro rimpiazzeranno i tre rospi che, secondo una leggenda molto diffusa, figuravano sul blasone del “re dei Franchi”. Essi hanno costituito, fino alla fine dell’Ancient Regime, la bandiera di Francia.
L’uso di simboli parlanti è d’altronde sopravvissuto al Medioevo: ai nostri giorni, quando vediamo un disco rosso con un tratto bianco in orizzontale, traduciamo immediatamente: “Divieto d’accesso”. Un araldista leggerebbe: “Rosso alla fascia d’argento”. (Infatti, questo è stato il blasone della casa d’Austria prima di diventare il segnale di divieto d’accesso).
Noi ritroviamo l’uso del blasone in tutte le classi sociali, perché, nel Medioevo, non è affatto un segno distintivo della nobiltà, non più di quanto oggi il cavallino rampante lo sia per la Ferrari, o quanto lo sia una divisa o un’etichetta.
Bibliografia
Georges e Regìne Pernoud, Le Tour de France Médiévale: l’histoire buissonnière, Stock 1982, pp. 144-148;
Michel Pastoreau, Medioevo simbolico, Laterza, 2009;
Paul Martin, Armes et armures de Charlemagne à Louis XIV, Office du Livre, 1967.
Ho un dubbio tutto mio, sull’origine dell’usbero…insomma qui si parla di longobardi come se prima non ci fosse nulla di simile, ma se pensiamo all’hamata di origine romana (di uso celta anche. Non facciamo sofismi se no non ne usciamo 😉 ) era fondamentalmente un usbergo corto…E il suo uso fu molto duraturo nella storia dell’esercito romano.