Si apre con un omaggio all’Afghanistan il concerto dell’ensemble Hartmann al bar Verdi di Salerno: gli accordi del robab, il liuto afghano così raro da trovare perché già da tempo i musicisti sono costretti a nasconderlo sotto terra, e ancor più oggi che i talebani (rinnegando le loro stesse radici) hanno proibito la musica, accompagnati dal tamburo e dalla dilruba indiana, gridano tutta la bellezza di una terra che ancora oggi non riesce a trovare pace.
E il pensiero corre subito alle donne afghane, ora di nuovo ridotte al silenzio da un regime di estremisti che usa il nome di Dio come un’ideologia; ma anche alle nostre donne italiane, delle quali, ogni tre giorni in media, una muore, di solito per mano dell’uomo che diceva di amarla.
Dunque possono avere un suono queste donne?
L’impressione è che questa domanda sia la spina dorsale dell’album di esordio degli Hartmann, Trotula, in cui la medica Trotta diventa un po’ il simbolo di tutte le donne, del suo tempo e di oggi.
Accordi dei trovatori, armonie orientali e testi del Seicento napoletano si fondono, quasi a voler mantenere sospeso ogni spazio, temporale o geografico, così come sospeso sembra il tempo nel grembo materno. I testi originali hanno il sapore del mare, di una speranza che viene da lontano, di viaggi avventurosi e di nostalgie d’amore, o anche di creature fantastiche che spesso accorrono in aiuto delle donne, come il “monaciello” napoletano.
E’ stata suggestiva la scelta degli Hartmann di affidare i loro suoni al supporto del vinile: un materiale che credevamo passato di moda, soppiantato dalla musica digitale, ma che ora sta tornando prepotentemente alla ribalta. Forse perché, in un mondo in cui tutto cambia alla velocità della luce, siamo alla ricerca di qualcosa che duri?
E cosa può durare di più del suono delle donne che, nonostante tutti i tentativi di farlo tacere, resiste da migliaia di anni?
Basta avere le orecchie, la mente e il cuore per ascoltarlo.