Una domanda che amo fare sempre ai consacrati è questa: come ti è arrivata la famosa “chiamata” che ti ha portato a lasciare tutto e scegliere la vita di sacerdote o di suora? La risposta è stata sempre la stessa: è un mistero, si fa prima a viverlo che a spiegarlo.
Immagino dunque che raccontare come nasce una vocazione alla vita consacrata sia un’impresa tutt’altro che facile; e ancora di più se si tratta della scelta di un tipo di consacrazione che oggi non esiste più, come quella degli ordini militari del XII secolo. Eppure è esattamente quello che ha provato a fare lo scrittore sanremese, bergamasco di adozione, Francesco Fadigati nel suo romanzo storico La Congiura delle Torri.
Quello della Lombardia del XII secolo è un mondo totalmente diverso dal nostro, e uno scrittore che deve trasportare una storia in quel mondo deve tenerne conto. Per fortuna, Fadigati lo sa benissimo, e si fa aiutare dalla storica Maria Teresa Brolis, che si sa muovere bene tra i documenti della Bergamo del tempo, di cui ha studiato soprattutto i testamenti femminili.
Anche una parola come “vocazione”, tra il 1133 e il 1147 (arco di tempo in cui il romanzo è ambientato), non aveva lo stesso significato che le diamo noi. All’epoca il destino di una persona veniva già deciso alla nascita, e nascere nobile implicava tutt’altro percorso che nascere plebeo; se si nasceva nobile, poi, era quasi sempre la strategia familiare a decidere chi si dovesse sposare, chi avesse dovuto imbracciare le armi e chi i libri, o chi avesse dovuto indossare la tonaca o il velo. E si pensava che, se ci si trovava in quella determinata condizione, era perché Dio aveva voluto così, e dunque era quella la propria “vocazione”: tutto quel che si doveva fare era calarsi in quei panni nel migliore dei modi.
È questo il punto di partenza del protagonista del romanzo, Folco dei Lamberti, giovane cavaliere inviato dalla madre a Bergamo e che si mette al servizio del nobile Landolfo Muizoni: il suo sembra un destino già scritto, e il monastero di San Sepolcro ad Astino in cui trova ospitalità all’inizio della storia sembra solo un punto di passaggio verso la carriera di milite e l’ascesa sociale, quello che sua madre si aspetta da lui, percorso in cui lo stesso Folco sembra calato perfettamente. Eppure, di tanto in tanto, fin dall’inizio, quasi di sfuggita, sbuca una figura che sembra porre un ma: quella di Maifredo Regolati, cavaliere ed ex console, che ha rinunciato a tutto, famiglia e carriera, per ritirarsi in monastero, godendo di un «ben più alto privilegio», secondo le sue stesse parole.
Sono sprazzi, incontri fugaci, che sembrano presto inghiottiti dalla trama serrata della storia, dominata dalla lotta senza quartiere tra le nobili famiglie bergamasche dell’epoca, capitanate dai Muizoni da una parte e dagli Suardi dall’altra, il cui pomo della discordia del momento è il vescovo Gregorio, monaco dal polso fermo la cui figura ricorda molto quella di Tommaso Becket, cui non importa nulla degli equilibri locali impegnato com’è ad adempiere il suo dovere senza riserve, atteggiamento che alla fine gli costerà la vita. Il ritmo è coinvolgente, l’ambientazione realistica, forse i rievocatori specialisti di XII secolo potranno trovare degli errori per quanto riguarda descrizioni di armi, armature e cultura materiale, ma si tratta di dettagli, che non inficiano certo la credibilità del racconto. Quello che ho più apprezzato è stata la resa della mentalità, non soltanto per questa centralità dell’interesse della famiglia, del casato o della fazione che nel romanzo torna continuamente, ma soprattutto perché i personaggi, paradossalmente, non sono fermi a questa sola dimensione: l’autore non dimentica il fatto che il XII secolo è un’epoca in cui sono tutti credenti, e credenti reali, e dunque, volenti o nolenti, certi problemi se li devono porre. È uno strano contesto, in cui gli interessi più meschini convivono tranquillamente con gli ideali più alti, in cui lo scontro tra papa Innocenzo II e l’antipapa Anacleto II diventa il pretesto per le guerre civili locali, ma in cui si fa sentire anche l’influsso della predicazione di Bernardo di Chiaravalle, e degli ideali della cavalleria.
In questo contesto si situa il romanzo di formazione, anzi, il “percorso vocazionale” di Folco dei Lamberti, che lo porterà alla fine ad imbarcarsi per la Terrasanta come “pellegrino armato”, forse come consacrato in armi. Un percorso durato più di dieci anni, giustamente, in cui il giovane partito imbevuto di ideali della cavalleria si scontra con la dura realtà, fuori e dentro di sé. E di questo percorso, paradossalmente, fa parte anche la scoperta dell’amore, e insieme il suo superamento: prima la cocente delusione di Adeleita della Crotta, perfettamente calata nel ruolo di Damigella da romanzo cavalleresco, promessa al nobile Taddeo Colleoni e dunque irraggiungibile, e poi Belfiore, la “ragazza della porta accanto”, che con i suoi nobili sentimenti di fanciulla al servizio dei malati accolti nella foresteria del monastero, gli aprirà la dimensione dell’amore gratuito che si nutre di se stesso e che non pretende niente in cambio. Conterà poi molto l’esempio del vescovo Gregorio, capace di sacrificare fino la propria vita per quello in cui crede. Tutto questo porterà Folco alla conclusione che esiste un Amore anche al di là dell’amore, qualcosa per cui vale davvero la pena mettere in gioco se stessi, e al cui confronto perde importanza anche ciò che si riteneva importante fino a quel momento.
In fondo è questa la vocazione alla vita consacrata: non una “fuga dal mondo” ma un “andare oltre il mondo” per qualcosa di più grande. È il tesoro nascosto nel campo di evangelica memoria, per il quale chi lo trova vende tutto ciò che ha, non perché non ne riconosca il valore, ma perché ciò che ha trovato lo supera all’infinito.
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