
Giovanni da Procida – particolare dal mosaico absidale della Cappella di S. Gregorio VII, 1259-60 ca. – Salerno, Duomo. Per cortesia di Francesca Angellotti.
“Se qualcuno è sapiente, ci dia buoni insegnamenti; se ha pietà, preghi per noi; se è prudente, questi ci governi”
Con queste parole Bernardo di Chiaravalle, nel XII secolo, puntualizzava la qualità principale che si dovesse valutare nello scegliere un uomo di governo, che fosse il papa, un re, o un semplice barone: la prudenza.
E proprio la prudenza sembra esser stata la caratteristica di un Salernitano rimasto apparentemente “dietro le quinte”, tanto da essere poco studiato e quasi sconosciuto nella sua città di origine, che associa semplicemente al suo nome un ospedale e un liceo scientifico; eppure un personaggio le cui azioni hanno praticamente determinato i destini di mezza Europa, un autentico Primo Ministro ante litteram: Giovanni da Procida.
Lo storico dell’Ottocento Salvatore de’ Renzi, che scrisse un intero libro su di lui, un po’ datato per alcuni aspetti ma tutto sommato ancora valido e documentato, colloca la sua nascita a Salerno nel 1210. La sua era una famiglia antica e nobile, forse di origine longobarda, che aveva ottenuto dai sovrani normanni possedimenti sull’isola di Procida: agli inizi del Duecento, quando nasce Giovanni, la sua famiglia è divenuta talmente ricca da possedere addirittura la metà dell’isola, con boschi, terre e vigneti.
Il particolare curioso, però, è che Giovanni da Procida non viene educato per divenire uomo di governo, bensì medico. D’altronde Salerno e le sue scuole di medicina, da almeno tre secoli famose in tutta Europa, stanno vivendo una svolta epocale, avviandosi a diventare una vera e propria università. Giovanni, così, studia probabilmente nella scuola cattedrale di Salerno, la più prestigiosa, quella di Santa Caterina. Lì si appassiona ai testi di medicina greco-arabi, e li traduce in latino: sua, ad esempio, è la traduzione del trattato di medicina dell’antico maestro Giovanni Alessandrino (VII secolo) e del suo contemporaneo musulmano Ibn Abi Usaybiah, medico personale dell’Emiro di Ṣarkhad, in Palestina. Forse è proprio la sua formazione di medico ad instillargli nel sangue la virtù della prudenza, fondamentale secondo Ippocrate per affrontare una malattia, e che i maestri medici e chirurghi di Salerno non si stancano mai di raccomandare nei loro scritti.

Dioscoride – miniatura da “Medicina Antiqua”, Codex Vindobonensis 93 – Italia meridionale, prima metà del XIII sec. – Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
I risultati ottenuti da Giovanni come medico, nonché la diffusione delle opere da lui tradotte grazie alla profonda conoscenza del Greco e dell’Arabo, debbono essere arrivati all’orecchio dell’imperatore Federico II, dato che ad un certo punto lo ritroviamo addirittura alla sua corte; lì, Giovanni ha modo di conoscere intellettuali e scienziati del calibro di Pier delle Vigne o Michele Scoto, e di imparare i raffinati meccanismi della politica. Il “semplice” medico salernitano è divenuto dunque un uomo ricchissimo e potente: sappiamo che possiede una casa a Napoli, nel quartiere del Patriziano, il quartiere aristocratico per eccellenza della città; è il feudatario di Tramonti e Caggiano, e in più possiede altre terre nella zona flegrea. Questo fa sospettare che Giovanni da Procida non faccia semplicemente parte dell’équipe di medici al servizio dell’Imperatore: infatti, a Castelfiorentino, Giovanni è lì accanto al suo letto di morte a raccogliere le sue ultime parole e a firmare, insieme ad altri uomini fidati, il suo testamento. Questo, insieme all’attaccamento che poi dimostrerà nei confronti di Manfredi, figlio di Federico e della sua “favorita” Bianca Lancia, può far sospettare che l’imperatore avesse scelto proprio Giovanni come precettore di questo suo figlio naturale, illegittimo, e dunque il meno titolato per la successione al trono. Si può dunque capire come Giovanni da Procida sia passato indenne ai fulmini che, di quando in quando, si abbattono sui “traditori” o presunti tali, soprattutto in seguito alla congiura di Capaccio, in cui, tra il 1245 e il 1246, alcuni tra i nobili più potenti del regno tentano di assassinare l’imperatore e l’erede al trono Enzo. Tanto più che Giovanni da Procida ha sposato in seconde nozze addirittura la rampolla di una delle famiglie in prima linea nella congiura, Landolfina Fasanella, diretta discendente dei principi longobardi, che gli ha portato in dote la baronia di Postiglione; eppure quello di barone di Postiglione è il titolo che Giovanni tiene di più a sfoggiare, senza essere nemmeno sfiorato dai continui sospetti di Federico, e soprattutto, Landolfina vive abbastanza a lungo da dargli tre figli, quando tutti i suoi parenti o quasi sono stati mutilati, accecati, o uccisi nei modi più orribili. Evidentemente la prudenza di Giovanni, insieme ad una incrollabile e sincera fedeltà alla casa degli Hohestaufen, gli ha dato occasione di raggiungere una posizione inattaccabile, anche se in penombra.

Lo scriba Johensis e il committente (forse proprio Giovanni da Procida) porgono il manoscritto a Manfredi – miniatura dalla “Bibbia di Manfredi”, 1250 c.a. – Roma, Biblioteca, Apostolica Vaticana.
Posizione che diviene il trampolino di lancio perfetto per la sua carriera politica, nel momento in cui il suo pupillo Manfredi, una volta che i suoi fratellastri Enzo e Corrado sono stati messi fuori gioco da lotte guelfo-ghibelline o da malattie, e una volta scavalcato suo nipote Corradino, si fa incoronare Re di Sicilia nel 1258; ed, evidentemente, in questa avventura, vuole avere al suo fianco l’antico maestro Giovanni da Procida, che da quel momento si ritrova ad essere il personaggio più potente del regno dopo il sovrano, prima Gran Cancelliere e poi Logoteta, cioè rappresentante del re.
In effetti, la situazione del regno di cui Manfredi si è impadronito non è delle più semplici: il Regno di Sicilia è una cattedrale in rovina, prosciugato dalle pesanti tasse imposte dal padre per le spese di guerra, e che Manfredi continua a imporre per mantenere la corte sfarzosa degli Hohestaufen; ottima di certo per l’ “immagine internazionale” del regno, ma decisamente mal sopportata dal baronaggio, dal clero e dalle città, le cui rivolte sono mantenute a freno a stento dai mercenari tedeschi e saraceni. In altre parole, servono soldi, e subito: il metodo più rapido per ottenerlo, all’epoca, sono i banchieri. In precedenza, Manfredi, come tutore di Corradino, aveva concesso grandi privilegi e nuovi insediamenti ai mercanti Genovesi e Veneziani, con accordi direttamente con le due città, come del resto aveva fatto suo padre, e, prima di lui, i sovrani normanni: due piccoli capolavori politici che ottenevano l’appoggio delle due maggiori potenze navali dell’epoca; due clamorosi fallimenti finanziari, che impoverivano ancor di più il regno mettendo la sua ricchezza in mani altrui.
Ora, però, acquisiscono un ruolo di primo piano le famiglie mercantili ravellesi e scalesi dei del Giudice, dei d’Afflitto, e, soprattutto, i Rufolo e i della Marra: i loro ingenti prestiti al re vengono ricompensati con diritti sulla riscossione dei tributi. Chissà se questa spinta non sia venuta proprio da Giovanni da Procida, il quale, avendo possedimenti sulla Costiera Amalfitana, probabilmente ha contatti con queste famiglie; e, soprattutto, che questo non sia che il primo passo di un’operazione rivolta, pian piano, a riportare e a mantenere la ricchezza nel regno.
Di sicuro sono legate al nome di Giovanni da Procida la creazione (o semplicemente il riconoscimento ufficiale) della Fiera di Salerno e la costruzione del porto cittadino. Si tratta di due iniziative non di poco conto, e forse un altro passo verso l’affrancamento dalle Repubbliche Marinare del Nord Italia. Le fiere in quel tempo sono importantissimi canali dell’economia, e finora ne mancava una nell’Italia Meridionale, che pure ha grandi potenzialità, soprattutto in materia di esportazione di materie prime consumate in tutta Italia come castagne e vino; fino allora erano stati i mercanti genovesi e pisani ad esportare le materie prime del Sud verso le grandi fiere del Nord Italia e dell’Europa; ora Giovanni da Procida vuole che a trarne vantaggio sia anche il Regno di Sicilia, e quale sede migliore per una fiera “internazionale” della sua città natale, polo commerciale fin dall’XI secolo? Si terrà due volte l’anno, nel corso dei dieci giorni che precedono le due feste di San Matteo, patrono della città, l’11 maggio e il 21 settembre. Qui, però, si pone un problema: una fiera delle dimensioni immaginate da Giovanni necessita di un porto adeguato, e Salerno ha il grave difetto di non avere un porto in città; quello utilizzato fino allora, alla foce del Sele, è decisamente poco pratico, e il più vicino, quello di Vietri sul Mare, è di proprietà dell’Abbazia di Cava dei Tirreni. Giovanni fa costruire dunque, nel corso del 1260, un porto nuovo di zecca, proprio in corrispondenza della rada sotto il monte Bonadies; quello che, in sostanza, esiste ancora oggi.

Veduta Rocca, la più antica immagine fedele del porto di Salerno- fine XVI sec. – Roma, Biblioteca Angelica – per cortesia di Antonio Braca.
Non basta: al nome di Giovanni da Procida è congiunta anche l’abside a sinistra dell’altare maggiore del Duomo di Salerno, che egli fa restaurare, commissionandone il mosaico della volta, ad uso della prestigiosa Confraternita di San Michele Arcangelo, di cui anch’egli può aver fatto parte; forse anche per questo, e non solo in quanto committente (la scritta lo indica chiaramente), egli si fece rappresentare nel mosaico, pur se in piccolo, inginocchiato, accanto a San Matteo in trono. Questo è l’unico ritratto sicuro di Giovanni giunto fino a noi. Peccato che l’usura del tempo ne abbia praticamente cancellato il volto.

Mosaico absidale della Cappella S. Gregorio VII (o della Crociata), commissionato da Giovanni da Procida – 1259-60 – Salerno, Duomo – per cortesia di Francesca Angellotti.
Per tenere sotto controllo i lavori (nonostante la corte di Manfredi, come tutte le corti dell’epoca, sia una corte itinerante), Giovanni da Procida deve aver passato per lo meno due anni interi a Salerno, pur sempre la sua città natale: ma dove? Un documento parla di un “palatium quod dicitur Furni“, un vero e proprio palazzo, nell’attuale località di Fuorni, circondato da canali e vasche, uliveti, campi di grano e frutteti. Molti studiosi identificano questo palazzo, un buen retiro che dev’essere stato splendido, con l’attuale Castel Vernieri, ormai poco più che un rudere, nonostante sia sottoposto a vincolo dal 1993.
Il politico, però, non dimentica mai di essere anche medico, anzi, la medicina si dimostra per Giovanni un’ottima alleata della politica, e della diplomazia: la sua competenza in materia gli apre molte porte, comprese quelle del papa, con cui gli Hohestaufen hanno da sempre un rapporto di conflittualità. Forse dobbiamo ammettere che il merito dello status quo che, per qualche tempo, si mantiene tra i pontefici e il figlio del pluriscomunicato imperatore Federico II, sia stato anche un po’ suo. Egli non può impedire, tuttavia, che Manfredi risponda alle provocazioni del nuovo papa, il domenicano Clemente IV (al secolo Guy Foucois) piombando direttamente a Roma e tentando di mettere il popolo romano contro il pontefice. Giovanni avrebbe probabilmente preferito una risoluzione più diplomatica della questione, tanto più che ha ottimi rapporti personali con Clemente IV e, in generale, con la curia romana; prova ne sia il fatto che, nonostante la scuola palatina romana conti alcuni tra i migliori medici d’Europa, il cardinale Giangaetano Orsini, uno dei personaggi più vicini al pontefice, si sia rivolto proprio a Giovanni da Procida per salvarsi da una grave malattia. Con tutto ciò, le iniziative di Manfredi fanno precipitare gli eventi, e Carlo d’Angiò, fratello del Re di Francia e conte di Provenza, con cui già il predecessore Innocenzo IV aveva preso contatti, viene ufficialmente consacrato dal papa, a Roma, Re di Sicilia: Giovanni da Procida deve così assistere, impotente ma fedele fino alla fine, alla morte del suo allievo e re nella battaglia di Benevento nel 1266, e alla definitiva disfatta degli Hohestaufen, due anni dopo, con il disastro di Tagliacozzo e la decapitazione dell’ultima speranza rimasta, Corradino.

Carlo d’Angiò uccide Manfredi nella Battaglia di Benevento – affresco dalla “Tour Ferrande”, Pernes-les-Fontaines, Vaucluse, Provenza – fine XIII sec.
Una delle immagini preferite dagli uomini del Medioevo per rappresentare il destino è la ruota della fortuna, che può portare un uomo dalla polvere alla gloria, e viceversa. Questa ruota sembra girare decisamente male per Giovanni da Procida: ecco l’antico “primo ministro” in cima alla lista dei “traditori”, spogliato dei suoi possedimenti, abbandonato da tutti, compresa la moglie Landolfina che in un documento vediamo rivolgersi direttamente a Carlo d’Angiò per chiedere la restituzione della sua dote e della sua eredità “depredatele” dal marito, il “traditore” Giovanni da Procida; la rivincita di una donna della famiglia decimata da Federico II contro il ghibellino che era stata forse costretta a sposare, o il realismo di una “vedova bianca” obbligata a fingere perché almeno i suoi tre figli possano avere un’eredità? Non lo sappiamo, ma quel che è certo è che Giovanni corre il rischio di essere arrestato e condannato da un momento all’altro; sceglie così la strada dell’esilio, deciso comunque, però, a riportare gli Hohestaufen sul trono del Regno di Sicilia. Vaga per l’Europa cercando alleati e un legittimo erede tanto ambizioso e determinato da riprendersi il trono.

La Ruota della Fortuna – miniatura dal Codex Buranus, 1230 ca. – Monaco, Bayerische Staatsbibliothek
Lo trova in Costanza, figlia di Manfredi, o meglio in suo marito, Pietro, erede d’Aragona e Catalogna, chiamato ancora oggi dai catalani, non a torto, “el Gran”, “il Grande”. Costanza accoglie Giovanni come suo medico personale, e ben presto egli conquista terre e titoli anche lì, se, una volta diventato re con il nome di Pietro II, dopo la morte del padre Giacomo I, questi lo nomina addirittura suo Cancelliere, e in più anche barone di Llutxent, Benissanó, Quatretonda, Palma de Gandia e Ador, sulla costa di Valencia.

Re e regina – pannelli lignei dipinti dal soffitto della cattedrale di Santa Maria, Teruel (Aragona, Spagna) – XIII sec.
Questa sua nuova posizione gli dà la possibilità di lavorare al suo progetto con la prudenza che lo ha sempre contraddistinto, spalleggiato dal re d’Aragona e da altri esuli come Ruggiero di Lauria e Galvano Lancia, divenendo così (sebbene molti continuino a negarlo) il vero architetto della rivolta dei Vespri Siciliani.
Giovanni da Procida costruisce una paziente tela di ragno, che abbraccia tutto il Mediterraneo: prima di tutto individua il punto più debole del nuovo regno angioino, la Sicilia, dove lo scontento è maggiore e dove i baroni e le città si sentono abbandonati a se stessi e in più schiacciati dalle pesanti tasse che Carlo non si è nemmeno sognato di diminuire o di trattare; poi comincia a tessere rapporti con papa Niccolò III, il suo amico di un tempo Giangaetano Orsini, per convincerlo della legittimità delle pretese di Costanza e Pietro. Il colpo di genio, però, è l’idea di coinvolgere anche l’Imperatore d’Oriente, Michele VIII Paleologo: Giovanni è infatti informato sulle ambizioni di Carlo di organizzare una specie di “crociata” per sedersi sul trono di Costantinopoli, appena riconquistato dai Bizantini, e sa che questo tasto non può lasciare indifferente il Paleologo. Così, grazie all’oro messogli a disposizione dall’imperatore, e agli emissari su cui può contare in quanto Cancelliere del regno D’Aragona, Giovanni da Procida comincia a soffiare sul malcontento siciliano; contemporaneamente, sempre grazie ai finanziamenti greci, riesce a mettere in piedi una vera e propria coalizione anti-angioina insieme con l’Inghilterra e la Repubblica di Genova, e, cosa più importante, a far sì che il papa non dia il suo consenso alla “crociata” di Carlo d’Angiò. Probabilmente, se il tutto fosse andato come previsto da Giovanni, non solo gli Aragonesi si sarebbero impadroniti dell’intero Mezzogiorno d’Italia, ma sarebbe stata perfino possibile una riconciliazione tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, divise da quasi trecento anni.
Purtroppo, però, Niccolò III muore nel 1280, e il successore che viene eletto sembra fatto apposta per rovinare tutto: Martino IV, al secolo Simon de Brie, in passato consigliere del re di Francia e molto vicino a Carlo d’Angiò; infatti la prima cosa che fa è troncare di netto i rapporti con «colui che si fa chiamare imperatore dei Greci» e di appoggiare incondizionatamente la “crociata” angioina per ripristinare il regno latino di Costantinopoli. Questo costringe ad accelerare i tempi: così, all’ora del vespro del lunedì di Pasqua del 1282, a Palermo, scoppia la rivolta.

Cavalieri aragonesi – pannelli lignei dipinti dal soffitto della cattedrale di Santa Maria, Teruel (Aragona, Spagna) – XIII sec.
È l’inizio di una guerra sanguinosa durata quasi vent’anni, conosciuta appunto come Guerra del Vespro, che finisce per mettere a ferro e fuoco l’intera Italia Meridionale. Una guerra che vede protagonista, anche se apparentemente dietro le quinte, proprio Giovanni da Procida: un ruolo che gli viene riconosciuto dagli stessi Siciliani, fin dalle prime cronache scritte come l’anonima Cronica di lu rebellamentu di Sichilia contra re Carlu (1290 ca). In effetti, nel tentativo di strappare anche il continente agli Angioini, mentre Ruggiero di Lauria, al comando della flotta aragonese, tenta più volte invano di attaccare direttamente Napoli dal mare, più fortuna hanno gli Almugaveri, i guerriglieri catalani che, via terra, risalgono la Calabria, la Basilicata, la Puglia, fino al Cilento, proprio attraverso i territori che un tempo erano stati di proprietà di Giovanni, e che lui, dunque conosce molto bene e dei quali può indicare ostacoli e scorciatoie. Prova ne sia il fatto che i Catalani stabiliscono una delle loro roccaforti principali nella poderosa torre di Castelcivita, sugli Alburni, in pieno Cilento, guardacaso proprio nei territori che Landolfina aveva portato in dote a Giovanni; questa torre, che esiste ancora, nel 1290 è riconquistata, con una grande e sanguinosa battaglia da Carlo Martello, nipote di Carlo d’Angiò, re titolare di Ungheria e principe di Salerno al posto del padre Carlo lo Zoppo (il futuro Carlo II), ostaggio degli Aragonesi.
Nel frattempo, però, vi sono altri problemi a mettere i bastoni fra le ruote: re Pietro è morto per una ferita riportata in battaglia, e la regina madre e reggente Costanza deve fare i conti con due figli, Giacomo e Federico, che si contendono la corona di Sicilia. Giovanni da Procida non vede che una soluzione: ricorrere all’arbitro supremo, il papa. Per fortuna, in quel momento, sul soglio di Pietro c’è il francescano Niccolò IV, il quale ritiene che di sangue se n’è già versato abbastanza. Giovanni ricorre così alla mediazione di sua figlia Giovanna, badessa del monastero delle Clarisse di San Lorenzo a Salerno (tra seguaci di San Francesco ci si intende meglio) per tentare una conciliazione tra i due fratelli. Purtroppo, il tentativo fallisce, tra Giacomo e Federico scoppia una guerra civile e la povera Costanza deve rifugiarsi proprio nel monastero di San Lorenzo a Salerno, sotto la protezione di Giovanna, dove rimane per ben nove mesi; tramite la badessa, però, è sempre in contatto con Giovanni, che, a Roma, continua le trattative. Ha passata l’ottantina, ormai, ed è stanco di una guerra che sta bagnando di sangue la sua terra e il suo mare. Il cronachista siciliano Bartolomeo da Neocastro, nella sua Historia sicula, riporta le sue accorate parole al papa francescano: «Clementissimo Padre, ti accorgi bene della condizione della mia vecchiaia, quando ho passato la curva soglia della vita e la mia età intorpidisce. […] E allora, riempi, o padre, e bagna della tua Santità l’animo di chi viene a te, e volgendo gli occhi della tua misericordia verso quest’innocuo Re e tutti i Siciliani illustra e indica benignamente la pace della Madre Chiesa».Ci vorrà, tuttavia, un mago della politica come Bonifacio VIII per sbloccare la situazione: con il trattato di Anagni, nel 1295, si stabilisce che la corona di Aragona e Catalogna andrà a Giacomo, e nasce un nuovo regno indipendente, il Regno di Trinacria, del quale è sovrano Federico.

Chiesa e convento di S. Anna in S. Lorenzo – dapprima comunità benedettina, poi monastero di Clarisse dal 1295 al 1589 – la chiesa attuale è un restauro della metà del Novecento della chiesa edificata tra il 1659 e il 1670. Per cortesia di Francesco La Manna.
A rovinare tutto è l’ambizione di Federico: il 25 marzo 1296, domenica di Pasqua, si fa incoronare a Palermo, con il titolo di Re della Sicilia, del Ducato di Puglia e del Principato di Capua, cioè di tutto il Sud Italia, e per giunta con il nome di Federico III, proclamandosi così erede di Federico II. È una provocazione che un carattere autoritario come quello di Bonifacio VIII non può essere certo disposto ad accettare: sul nuovo re di Sicilia piomba così il fulmine della scomunica, che colpisce anche tutti i suoi sostenitori, Giovanni da Procida compreso.
Per Giovanni è il colpo di grazia: la sua età non gli permette più di lottare, e devono intervenire, accompagnandolo direttamente a Roma, la badessa Giovanna sua figlia e la regina madre d’Aragona Costanza. Ed è grazie alle loro suppliche che il vecchio ex cancelliere, ex “primo ministro”, ex politico, ormai solo un povero vecchio quasi novantenne, viene reintegrato nei sacramenti, appena in tempo per morire proprio a Roma, in grazia di Dio, nel gennaio del 1299.
Non potrà così vedere realizzato il frutto dei suoi sforzi: nel 1302 il trattato di Caltabellotta sancirà definitivamente un dato di fatto: la Sicilia agli Aragonesi, il resto del Mezzogiorno agli Angioini.
Bibliografia:
Pasquale Natella, Giovanni da Procida, barone di Postiglione, Arci Postiglione, 2004;
David Abulafia; Federico II, Un imperatore medievale, Torino, Einaudi, 1993;
Giovanni Vitolo, L’età Svevo-Angioina, in “Storia e civiltà della Campania. Vol 2 – Il Medioevo”, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Napoli, Electa, 1992, pp. 87-136;
Salvatore Tramontana, Gli anni del Vespro. L’immaginario, la cronaca, la storia, Bari, Edizioni Dedalo, 1989;
Steven Runciman, I Vespri Siciliani. Storia del mondo mediterraneo alla fine del tredicesimo secolo, Bari, Edizioni Dedalo, 1997.
la pace di Caltabellotta sancí La Sicilia agli Angiò (attenzione era il continente!) e l’isola ai discendenti Siciliani D’Aragona, che con Federico si intitolò TRINACRIA