Ci sono vite che sembrano fatte apposta per diventare storie, vite che appartengono a tutti, vite che sembrano accadute perché, una volta trascorse, siano raccontate, e dunque rinnovate per sempre. Storie che non possono lasciare indifferenti, perché chiamano in causa la parte più profonda di noi stessi, ci svelano qualcosa su chi siamo. Come la storia di Caterina Benincasa, una “ragazza come le altre” della seconda metà del Trecento, figlia di un piccolo imprenditore di Siena, penultima di 25 fratelli, semianalfabeta, che morirà ad appena 33 anni consumata da una vita mistica così intensa da sembrare follia, eppure divenuta, e non suo malgrado, la personalità più importante del suo tempo, tanto da cambiare la storia.
La materia a disposizione è tantissima, ma al tempo stesso il rischio è molto alto: e dunque sorprende solo fino ad un certo punto che di romanzi su Caterina da Siena ne sia stato scritto uno solo, “Lay Siege to Heaven” di Louis de Wohl, che già abbiamo avuto modo di conoscere, pubblicato negli Stati Uniti nel 1961, ma edito in Italia solo nel 2007 dalla Rizzoli con il titolo di La mia natura è il fuoco.
Titolo scelto dalla traduttrice, con cui non sono molto d’accordo, a dire la verità: avrei trovato molto più forte e più bella una resa del titolo Inglese, del tipo Assedio al Paradiso. Perché veramente Caterina è una che il Paradiso lo ha messo sotto assedio, in tutti i modi possibili e immaginabili. E non solo andando ad Avignone a prendere letteralmente papa Gregorio XI “per le orecchie” e riportarlo a Roma.
Una scelta molto interessante del romanziere è stata quella di raccontare la vita di Caterina non dal suo punto di vista, ma dal punto di vista delle persone che, di volta in volta, la incontrano sul loro cammino. E quel che ne viene fuori, è che Caterina sembra nata per rompere le scatole.
Anzitutto alla sua famiglia, che a un certo punto si accorge di trovarsi in casa un’estranea, che dice di parlare con Dio, che rifiuta la vita comune di ogni donna (un marito, dei figli, il lavoro in bottega) per entrare, a quindici anni, nel Terz’Ordine domenicano in cui di solito entrano le vedove, e che, di nascosto, si ammazza di digiuni e penitenze. È facile, leggendo le pagine del romanzo, prendere in tutto e per tutto le parti dell’adolescente Caterina e bollare come “insopportabile” sua madre Lapa, che, da vera matriarca cerca, con le buone o con le cattive, di riprendere il controllo di questa figlia: ma siamo sicuri che, al suo posto, non ci saremmo comportati nello stesso modo?
È veramente una rompiscatole, questa Caterina, e il suo sport preferito sembra essere mettere in crisi l’esistenza di tutti quelli che incontra: dal poeta fiorentino Neri di Landoccio al capitano di ventura di origine inglese Giovanni Acuto, dal giovane Niccolò di Toldo condannato a morte, la cui esecuzione è una delle scene più toccanti di tutto il romanzo (la testa viene staccata dalla scure praticamente nelle mani di Caterina), allo stesso pontefice Gregorio XI. Da brava rompiscatole, Caterina non guarda in faccia a nessuno, e si ha un bell’essere cardinali, podestà, re o contessa, non le importa niente di sottigliezze politiche o di diplomazia cortigiana: lei dice pane al pane e vino al vino, perché legge nei cuori, e ciò che le importa è solo sfondare le porte del Paradiso per ogni persona che incrocia la sua strada, a costo di togliergli ogni illusione e sbattergli sul muso quanto faccia schifo. E a costo di calpestare gli interessi e mandare a monte i piani dei potenti di questo mondo, e di affrontare la loro vendetta.
Non si fa scrupoli nemmeno di rompere le scatole al Padre Eterno. Pur di conquistare il Paradiso per chiunque le capiti sulla strada, a partire dalla sua famiglia, è disposta a tutto: a non toccare cibo anche per mesi o addirittura anni, a dormire per terra con una pietra per cuscino, a massacrarsi con cilici e catene. Qualcuno ha parlato di “santa anoressia” o di “masochismo”, qualcun altro vi ha visto la disperata affermazione d’identità di una “femminista ante-litteram” che si proponesse come punto di riferimento alternativo alle gerarchie della Chiesa. Bazzecole, sembra dire l’autore sbattendoci davanti a Caterina così come dovevano vederla i suoi contemporanei: davanti a un altare, in estasi, capace perfino di non sentire uno spillone piantatole nel piede a tradimento da una cinica contessa francese; nell’ospedale a soccorrere gli appestati con il rischio di ammalarsi anche lei; scandalosamente obbediente ai suoi superiori anche davanti all’evidente torto marcio di questi ultimi, quando chiunque con un pizzico di amor proprio li avrebbe mandati al diavolo.
No, una rompiscatole come Caterina non può accontentarsi dell’effimero “piacere” dato dal farsi narcisisticamente del male, o nell’eroico porsi come bandiera per le donne o per i poveri cristi di questo mondo. Una così può solo volere tutto. Tutto, anche caricarsi addosso con le sue penitenze i dolori dei poveri cristi di cui sopra, non per chiudersi in se stessa come fanno i masochisti ma per aprirsi, anzi, per esplodere verso il mondo intero. Lei vuole essere nientedimeno che un altro Cristo, che in una visione addirittura le infila nel petto il suo stesso cuore.
Sì, Caterina, questa rompiscatole, voleva ben altro che “una stanza tutta per sé”: voleva un Paradiso tutto per sé. A costo di metterlo sotto assedio.
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Di questo autore io ho fatto un po’ fatica a leggere “La città di Dio”, dedicato a Benedetto da Norcia. Devo riprovare con questo su Caterina?
Io non ho letto “La città di Dio”, ma ho letto questo e “La liberazione del gigante”, su Tommaso d’Aquino, e sposso solo dire che mi sono piaciuti.