di Marco Rosci
La grande rassegna di Brescia ribalta il luogo comune manzoniano degli ultimi barbari, mostrando una civiltà aristocratica capace di dialogare con la classicità romana.

Amazonomachia – lastra di sarcofago, Ravenna?, III-IV sec. d.C. – riutilizzato probabilmente in età longobarda – Brescia, Museo di S. Giulia.
Ricordate Ermengarda con le sue trecce morbide e l’affannoso petto? Jacques Le Goff, presidente del comitato scientifico e legittimo grand patron di questa colossale mostra longobarda (513 opere di ogni tecnica e materia, 61 musei esteri e 84 italiani prestatori), è dissacrante al limite del brutale nell’introduzione all’imponente catalogo Skira: «utilizzo aberrante del Manzoni, nell’Adelchi, del personaggio di Ermengarda».

Interno della chiesa di S. Salvatore a Brescia, 753 – oggi si trova nel complesso monastico di S. Giulia.
Il punto dirimente è che la figlia di Desiderio, ultimo re Longobardo nel suo feudo ducale di Brescia, e della regina Ansa, fondatrice del monastero femminile di S. Salvatore intitolato poi a S. Giulia, dopo il ripudio di Carlo re dei Franchi ebbe degnissima accoglienza in quel monastero da parte della badessa, la sorella Anselperga, e vi fu sepolta. Forse in uno di quei sarcofagi romani provenienti probabilmente da Ravenna le cui lastre, ritrovate negli scavi di S. Salvatore negli anni 1980 decisivi per riferire la chiesa attuale alla fondazione di Desiderio e Ansa, sono conservate nel Museo della Città in S. Giulia, inaugurato l’anno scorso. I marmi reimpiegati, di piena civiltà romana costantinopolitana del III-IV secolo, con l’Amazonomachia e le Tre Grazie, sono inseriti a pieno titolo nel percorso finale della mostra, così come la chiesa stessa di S. Salvatore. Il suo impianto, i suoi capitelli a cestello, il fantastico intreccio degli stucchi nei sottarchi delle navatelle ricomposti e ricollocati nel restauro parlano all’unisono il linguaggio bizantino ravennate. La chiesa restaurata e l’intero complesso di S. Giulia, certamente il più straordinario e affascinante recupero museale degli ultimi decenni, sono il fondamento primo dell’affermazione di Le Goff, ribaltante il mito dell’ultima invasione «barbarica» affossatrice dell’Italia romana in un deserto di «atri muscosi» e di «fori cadenti»: «Nel campo dell’arte, della cultura scritta, del diritto, i Longobardi insediati in diverse parti importanti d’Italia, al Nord ma anche al Centro (Spoleto) e al Sud (Benevento) hanno in parte salvato, proseguito e rinnovato pezzi interi dell’Antichità romana classica e postclassica».
In sostanza i Longobardi, da guerrieri conquistatori a instauratori, attraverso la fusione con le culture latina e bizantina, delle prime identità regionali italiane, e da ariani a cattolici fondatori, soprattutto attraverso le loro regine, da Teodolinda ad Ansa, di fiorenti e ricche comunità monastiche, si rivelano e sono rivelati dalla mostra alla radice dell’identità italiana. E, dopo e al di là della dissoluzione del regno, anche del futuro carolingio, donde l’intitolazione Il futuro dei Longobardi. La mostra si inserisce infatti nel circuito europeo, da Paderborn a Spalato, da York a Barcellona, intitolato a Carlo Magno e la creazione dell’Europa. Il che non significa smentire del tutto l’immagine tradizionale degli originari guerrieri calati dalla Pannonia, evocati all’inizio con grande suggestione dalle immagini tridimensionali oleografiche in Stereovision.

Lamina di re Agilulfo – bronzo dorato a sbalzo, VI-VII sec. – Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
Questa civiltà aristocratica di cavalieri concentrava la sua ricchezza di oro, di argento, di rame dorato e argentato nel vasellame dorato e negli ornamenti corporei delle fibule, delle placche per cintura, delle crocette stampigliate (stupenda quella con pietre dure di Gisulfo trovata a Cividale) e in quelli da sella o applicati allo scudo o all’arma personale, come il pugnale di ferro della necropoli di Castel Trosino. La evocano all’inizio ai nostri occhi gli arredi tombali accanto a quelli femminili con le loro collane di ametiste, paste vitree, pendenti d’oro. Culmine di questa fase originaria sono il grande piatto d’argento di Castelvecchio a Verona, da Isola Rizza, con al centro il guerriero a cavallo, con la stessa corazza ed elmo che ricompaiono nella lamina di Agilulfo, incoronato nel 590, in bronzo sbalzato e dorato del Bargello a Firenze, già esplicito frutto dell’incontro con la cultura tardoclassica-bizantina.
Da qui in avanti, la mostra, con grande ricchezza di sussidi multimediali e virtuali, segue gli stanziamenti longobardi, dai monasteri come Novalesa e Montecassino, con i loro reliquiari e stupendi codici miniati, alle città ducali, Pavia, Milano, Verona, Cividale, Spoleto, con il fascino misterioso della romanità «replicata» del Tempietto di Clitumno, tale dal ingannare Francesco di Giorgio Martini, Antonio da Sangallo, il Palladio, presenti con i loro disegni.

Pluteo con pavoni – dall’oratorio di San Michele alla Pusterla -inizio VIII sec. – Pavia, Museo Civico Malaspina.
Infine Benevento, sopravvissuta alla caduta del Regno con Arechi, è presente con i frammenti di affreschi dal grande S. Vincenzo al Volturno. Dalle lastre marmoree con il simbolo ravennate frequentissimo del pavone, eccellenti in quelle pavesi da S. Maria Toedote e in quella del Museo di S. Giulia, ai dittici d’avorio emerge una straordinaria «coinè» di iconografie decorative barbariche, di memorie classiche e di influssi bizantini.

Madonna con Bambino – icona ad encausto da S. Caterina al Monte Sinai, VI sec. – Kiev, Museo dell’Arte Ucraina.
In un affascinante confronto con l’Occidente latino e con l’Oriente preiconoclastico sfilano i frammenti di mosaici romani dell’VIII-IX secolo e, da Kiev, tre icone di S. Caterina sul Sinai di VI-VII secolo di incredibile espressionismo tardoclassico.
da “La Stampa”, 24/06/2000.
Per saperne di più:
Il futuro dei Longobardi: l’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno; 18 giugno – 19 novembre 2000, Brescia, Monastero di Santa Giulia, a cura di Carlo Bertelli e Gian Pietro Brogiolo, Milano, Skira, 2000.