Ortensia, Leonora e le altre: l’enigma delle poetesse di Fabriano

Giovannino de’Grassi, Concerto di Dame – dal “Taccuino di disegni detto di Giovannino de’Grassi”, 1370 circa – Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai.

È la seconda metà del XVI secolo quando due intellettuali di Fabriano, Giovanni Domenico Scevolini e Andrea Gilio, pubblicano, all’interno delle loro opere di erudizione, alcuni sonetti attribuiti a due donne loro concittadine, entrambe indicate come vissute due secoli prima, al tempo di Petrarca: Ortensia di Guglielmo e Leonora della Genga.
È l’inizio di un vero e proprio giallo della letteratura italiana, con storici e filologi che si accapiglieranno per secoli tra chi considererà autentiche quelle composizioni e chi dei “falsi d’autore”. Successivamente, l’elenco delle poetesse fabrianesi si arricchirà di altri due nomi, Livia da Chiavello, Giovanna Fiore ed Elisabetta Trebbiani, ma il cuore del problema rimangono loro, Ortensia e Leonora, che anticiperebbero di ben due secoli le “petrarchiste” del Cinquecento.

Giovannino de’Grassi, Poetesse – dal “Taccuino di disegni detto di Giovannino de’Grassi”, 1370 circa – Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai.

Il più interessante tra i sonetti attribuiti a Ortensia di Guglielmo, e pubblicati nella Topica Poetica di Andrea Gilio, ha delle assonanze decisamente sospette con il VII sonetto del Canzoniere di Petrarca, conosciuto come «La gola, e il sonno e le oziose piume», ed è appunto presentato come indirizzato al grande poeta fiorentino.

«Io vorrei pur drizzar queste mie piume
colà, signor, dove il desio m’invita,
e dopo morte rimanere in vita,
col chiaro di virtute inclito lume.

Ma ‘l volgo inerte che dal rio costume
vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita,
come digna di biasimo ognor m’addita,
ch’ir tenti d’Elicona al sacro fiume,

all’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto,
come che qui non sia la gloria mia,
vuol ch’abbia sempre questa mente intesa.

Dimmi tu ormai che per più via dritta via
a Parnaso ten vai, nobile spirito,
dovrò dunque lasciar sì degna impresa?»

Non è dunque all’amico Boccaccio che Petrarca avrebbe risposto con il suo sonetto, come si legge ancora oggi nella maggioranza delle edizioni del Canzoniere, ma alla donna Ortensia di Guglielmo da Fabriano, e questo cambierebbe non poco le carte in tavola: l’argomento di discussione infatti così non sarebbe più quello ricorrente nel Petrarca della fatica dell’esercizio della poesia in un mondo ossessionato dal guadagno, ma la fatica dell’esercizio della poesia da parte di una donna in un mondo maschile e maschilista che vorrebbe l’autrice dedita «all’ago e al fuso».
Per molti critici, tra i quali Giosué Carducci, è bastato questo per liquidare il sonetto come un falso fabbricato ad arte dal Gilio, senza scomodare altre ragioni più solide, ad esempio di tipo filologico. Eppure proprio l’argomento del sonetto, la rivendicazione della partecipazione femminile alla vita poetica, sembra anticipare di mezzo secolo Christine de Pizan e la sua querelle des femmes, la sua battaglia per mostrare il valore delle donne ai misogini del suo tempo, soprattutto quelli di ambiente universitario.
Gli altri tre sonetti a lei attribuiti ci fanno vedere d’altronde come, al contrario delle petrarchiste del Cinquecento, Ortensia non si occupi di temi considerati prettamente “femminili” come l’amore, ma si dimostri ben consapevole dei problemi del suo tempo come la “cattività avignonese” (a riprova del fatto che non furono soltanto le grandi sante come Brigida di Svezia e Caterina da Siena le sole donne a interessarsene), cui dedica il lamento «Ecco, Signor, la greggia tua d’intorno»; questa poetessa inoltre è capace di riprendere in chiave femminile la tematica tipicamente petrarchesca del percorso accidentato per arrivare alla virtù, con il sonetto «Tema, e speranza entro il mio cor fan guerra», o addirittura, attraverso il sonetto «Vorrei talor de l’intelletto mio», di allacciarsi alla grande corrente spiritualista che pervade il Trecento europeo, la quale, anzi, può essere stata innescata proprio dalle donne come reazione al “razionalismo” del secolo precedente, e non solo dalle mistiche.

Giovannino de’Grassi, Pavone – dal “Taccuino di disegni detto di Giovannino de’Grassi”, 1370 circa – Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai

D’altra parte Fabriano, libero comune dal 1234, è nel Trecento un centro importante nell’Italia centrale dell’epoca, forte della sua fiorente industria della carta, ma anche lacerata dalle lotte intestine tra famiglie affiliate alle parti guelfa e ghibellina, come i Chiavelli e i Della Genga. Guardacaso, proprio le famiglie cui sarebbero appartenute due delle nostre poetesse. I Chiavelli in particolare, dopo aver imposto la loro signoria sulla città nel 1378, creano una vera e propria corte, che può aver favorito la formazione di un circolo poetico tutto al femminile.
Interessante il fatto che i Chiavelli siano in stretti rapporti proprio con i Della Genga, grazie al castello del feudo di questi ultimi, spesso al centro di patti e concessioni stipulati con la famiglia più potente della città. E quello stesso castello compare nel 1215 in un contratto di enfiteusi con i monaci dell’abbazia di San Vittore delle Chiuse, a vantaggio Gadolfino Della Genga, potente capofamiglia e figura di primo piano nella vita di Fabriano; il quale, secondo Scevolini, altri non sarebbe che il nonno di Leonora.
Una poetessa molto affine a Ortensia, capace anch’essa di mettere in versi una “teologia al femminile”, come mostra il sonetto «Dal suo infinito Amor sospinto Iddio». D’altra parte sembra proprio che le due poetesse siano legate da una corrispondenza diretta, e che Leonora guardi a Ortensia come modello e fonte di ispirazione, forse anche in virtù del contatto che quest’ultima ha avuto con il “sommo” Petrarca. Il sonetto «Di Smeraldi, di perle, e di diamanti» è una chiara celebrazione e una lode senza condizioni di Ortensia, mentre nell’epitaffio scritto per la sua morte, «Coprite, o muse, di color funebre», Leonora usa per lei la stessa definizione che si ritrova nel sonetto VII di Petrarca, «spirto gentil»; chissà che, essendo Ortensia morta prima di Leonora e dunque più vecchia di lei, non sia stata magari la sua maestra.
Fatto sta che Leonora condivide con Ortensia anche un’altra tematica, quella della rivendicazione del valore delle donne, come mostra questo sonetto dal tono decisamente bellicoso:

Tacete, o maschi, a dir, che la Natura
a far il maschio solamente intenda,
e per formar la femmina non prenda,
se non contra sua voglia alcuna cura.

Qual’ invidia per tal, qual nube oscura
fa, che la mente vostra non comprenda,
com’ella in farle ogni sua forza spenda,
onde la gloria lor la vostra oscura?

Sanno le donne maneggiar le spade,
sanno regger gl’Imperi, e sanno ancora
trovar il cammin dritto in Elicona.

In ogni cosa il valor vostro cade,
uomini, appresso loro. Uomo non fora
mai per torne di man pregio, o corona.

Leonora, come farà più tardi Cristine de Pizan, affronta di petto la misoginia degli intellettuali del suo tempo partendo proprio dalla radice, la teoria aristotelica sulla generazione: essendo solo il seme maschile principio di generazione e l’utero femminile semplice terreno di coltura, il risultato finale perfetto avrebbe dovuto essere a sua volta un maschio (e un maschio possibilmente più perfetto del genitore), mentre la femmina, essendo frutto di un ciclo imperfetto, sarebbe di conseguenza un “maschio mutilo” (mas occasionatus).
Leonora non oppone a tutto questo una tesi contraria, ma sbatte in faccia ai suoi interlocutori gli esempi del suo tempo che sono sotto gli occhi di tutti: guerriere, regine, poetesse. Lo stesso metodo che usa Boccaccio nel suo De Claris Mulieribus e che Christine de Pizan userà nel suo La città delle Dame.
Ma allora queste poetesse di Fabriano sono reali presenze o costruzioni erudite degli intellettuali del Rinascimento? Possiamo solo dire, per ora, che le composizioni loro attribuite s’incastrano perfettamente nel loro tempo, e, se per il momento non è dato saperne di più, non è nemmeno lecito liquidarle prima di aver ascoltato le loro voci.

Bibliografia:
Mercedes Arriaga Flòrez, Le scrittrici marchigiane: un giallo letterario, in «Studi Umanistici Piceni» , n. 28, Istituto Internazionale di Studi Piceni, Sassoferrato, 2008, pp. 161–66;
Id., Poetas italianas de los siglos XIII y XIV en la Querella de las mujeres, Siviglia, Arcibel, 2012;
Daniele Cerrato, Presenza/assenza delle petrarchiste marchigiane, in Ausencias: escritoras en los márgenes de la cultura, a cura di Mercedes Arriaga Flórez, Salvatore Bartolotta, Milagro Martín Clavijo, Siviglia, Arcibel Editores, 2013, pp. 219-241

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Buongiorno a tutti! Sono una paleografa con la vocazione per la scrittura e il pallino del Medioevo e delle sue storie. Amo la lettura, la buona musica, la poesia, la filosofia, l'arte, il cinema: in breve, qualunque espressione del buono, del bello e del vero. Nel 2011 ho vinto l'VIII edizione del premio letterario "Il racconto nel cassetto" con il racconto "Il Tamburo delle Sirene", pubblicato dalla Centoautori in "Il Tamburo delle Sirene e altri racconti" (2012). Ho collaborato con il sito di Radio CRC e con il giornale on-line "Citizen Salerno" e ora collaboro con la rivista on-line "Rievocare". Faccio parte del gruppo di living history "Gens Langobardorum" e come rievocatrice indipendente promuovo la Scuola Medica Salernitana, gloria della mia città. Nel 2020 ho pubblicato con la Robin "Mulieres Salernitanae. Storie di donne e di cura".
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2 risposte a Ortensia, Leonora e le altre: l’enigma delle poetesse di Fabriano

  1. fuorilerigheblog ha detto:

    Salve, mi chiamo Antonella Festa, insegno lettere presso il liceo classico di Lanciano e per la scuola sto curando un’antologia di poetesse dalle origini della letteratura italiana alla querelles des femmes.Nelle nostre ricerche, abbiamo incontrato il sonetto di Elisabetta Trebbiani “Trunto mio che le falde avvien che bacie” ma abbiamo problemi con il volgare marchigiano del Trecento. Puoi darci una mano in qualche modo?

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