Feudi e castelli

Giardino degli aranci – Castello estense, Ferrara.

Il turista che visita i castelli della Romagna vede delle belle dimore di piacere, di gran lusso, nelle quali i principi del Rinascimento vivevano con le loro famiglie, serviti da un gran numero di domestici.
Il castello medievale è tutta un’altra cosa. Non ha niente della proprietà privata: è un vero e proprio Stato in miniatura.
I feudatari erano stati, al tempo di Carlo Magno, dei semplici delegati del re. Amministravano una regione per suo conto; erano retribuiti alla maniera dell’epoca, cioè con le rendite di alcune terre. In seguito, assunsero un ruolo più importante. Le invasioni vichinghe e saracene (IX-X secolo), coincisero con la decadenza totale dello stato centralizzato istituito da Carlo Magno. In assenza di un qualsiasi potere centrale, bisogna ugualmente, sul posto, difendersi e assicurare la sopravvivenza della popolazione: si spiega così l’estrema parcellizzazione che fa in particolare della Francia un vero e proprio “mosaico di feudi”, divenuti poco a poco ereditari. Il signore che detiene un feudo non ne è il proprietario: ha soltanto un certo numero di diritti che il costume ha consacrato. Questi diritti sono la controparte del suo dovere, che è garantire la sicurezza di quel determinato feudo. Di fatto, i feudatari hanno rappresentato, ai loro tempi, ciò che per noi oggi rappresentano l’esercito, i magistrati e la polizia, con la differenza che, non essendo retribuiti dallo Stato, godevano di un certo numero di privilegi sulle terre che amministravano. Questi diritti erano un po’ l’equivalente delle tasse che noi oggi paghiamo per essere protetti e governati.
Oggi esistono caserme dell’esercito, caserme dei carabinieri e stazioni di polizia. Nel Medioevo sono i castelli a popolare il suolo, mentre le mura di cinta difendono le città. Gli stessi nomi di coloro che detengono i castelli sono significativi: c’è il duca, dux, capo militare; c’è il marchese, marchio, colui che difende una marca, cioè una frontiera; c’è, più spesso, il conte, comes, cioè il compagno d’arme, l’amico del re, che a lui ha affidato questa o quella porzione di territorio da governare. Duca, marchese o conte che sia, quest’amministratore viene chiamato “signore”, senior, l’anziano, titolo che ci rammenta che la nobiltà, più che di origine militare, è di origine contadina, e che, sul territorio, è l’ “anziano”, l’uomo con più età ed esperienza, a governare.
Il suo castello è, prima di tutto, un apparato difensivo, non soltanto per lui e la sua famiglia, ma per tutti i suoi domestici, e, inoltre, per tutti gli abitanti dei dintorni, che vi si rifugeranno in caso di emergenza.
Quando visitiamo questi grandi castelli, dobbiamo immaginarli affollatissimi e brulicanti di vita. Oltre al signore e alla sua famiglia, in effetti, nel castello viveva una moltitudine di gente per i quali la parola domestici va impiegata nel suo senso originario: chi è della casa. D’altronde, il termine famiglia (familia) designa all’epoca non soltanto i figli del signore, ma tutti quelli che vivono presso di lui, ivi compresi i più umili servi, quelli che lavorano nelle officine o nelle cucine.
Un feudo è un mondo a parte; quasi sempre si produce sul posto tutto il necessario: il mulino produce la farina; si cuoce il pane; si forgiano i ferri per i cavalli; si allevano gli animali destinati all’alimentazione; si tesse la stoffa. Tutto questo almeno all’origine, quando le città non avevano ancora acquisito molta importanza. A partire dall’XI secolo si comincia ad acquistare in città o dai mercanti di passaggio, a un prezzo migliore, tutto o parte di quello che una volta veniva fabbricato sul posto. Bisogna dunque immaginare un incessante viavai di chi porta la legna destinata al riscaldamento o alle forge, il grano al mulino, la lana al laboratorio di tessitura, di chi ripone il raccolto nei granai o i barili nei magazzini. Tutto attorno al castello, sulla collina, sono arroccate le casette dei contadini, servi o uomini liberi. All’interno del suo dominio, soltanto alcune terre sono di proprietà del signore, che questi fa coltivare direttamente, o sulle quali si riserva il diritto di caccia. È quella che viene chiamata in Francese la défens (letteralmente “difesa”); su tutto il resto del territorio, i contadini gli devono soltanto una parte dei raccolti, così che, dalla mietitura di luglio fino alle vendemmie di ottobre, i raccolti sono un grande affare.
Di queste terre i contadini non ne sono i proprietari. Ma anche il signore non è il proprietario né del feudo né del castello: ne è semplicemente il custode, ed è tenuto a trasmetterli al suo successore; di conseguenza, non può venderli. E sul suo feudo, il suo potere è lontano dall’essere illimitato. Non è la sua volontà a dettar legge nel feudo, ma la consuetudine: le abitudini consolidate dal tempo, il “si è sempre fatto così”. E se tali consuetudini non erano scritte (almeno in principio), erano però conosciute da tutti, signori e governati, e si sapeva che se concedevano al signore un certo numero di diritti fissavano per lui anche dei limiti, e sia il signore che i suoi sottoposti sapevano di non poterle violare impunemente; le usanze avevano la precedenza sulla proprietà.
Il carattere difensivo del castello colpisce fin dall’inizio. Dove le difese naturali sono insufficienti – è il caso più frequente, a eccezione dei castelli che si ergono su una collina naturale o su una scarpata rocciosa -, gli enormi fossati servono ad isolare la fortezza. Attorno ad alcune città, possono arrivare fino a venti metri di larghezza. Il fossato non è altro, d’altronde, che la cava dalla quale si è estratta la pietra per costruire le mura.

Castello Svevo, Bari – fossato.

Il vocabolario militare ha conservato i nomi dei sistemi difensivi che circondavano il castello. Queste difese si sono evolute nel corso dei secoli: c’è anzitutto una sorta di scarpata in pendenza che ci porta al bordo del fossato: è lo spalto. Le due pendenze che delimitano l’interno del fossato sono la scarpata del fianco del castello, e la controscarpata del fianco dello spalto. Infine, al di sotto della scarpata, un dirupo in pietra continua la pendenza, anche se la massa di pietra è più spessa ancora in basso, alla base delle mura, che nelle mura stesse, per quanto spesse correntemente dai due metri e più per questa cinta esterna che viene chiamata cortina.
La cinta generalmente fa il giro del castello e permette di accedere direttamente al mastio, la torre centrale, che ne è la parte principale, da un cammino di ronda. Una delle cinte murarie meglio conservate è quella di Castello Ursino (Catania) eretto da Federico II nel XIII secolo.

Castello Ursino, Catania – cinta muraria

Perché il castello è, lo abbiamo detto, un piccolo mondo a sé: all’interno della sua cinta devono potersi rifugiare non soltanto il signore e i suoi vassalli, che, volta per volta, sono tenuti ad adempiere il servizio d’armi – servizio che si può protrarre fino a quaranta giorni all’anno -, ma anche i contadini dei dintorni. Così si trovano, all’interno, la corte o cortile, degli alloggi, generalmente una cappella, e, sempre, il pozzo che rifornirà d’acqua gli abitanti e i loro animali; a Polignac, in Francia, questo pozzo raggiunge gli 83 metri di profondità: bisogna prepararsi ai lunghi assedi. La parte principale è il mastio, che funge contemporaneamente da abitazione del signore e da rifugio supremo quando il resto del castello è stato conquistato; perciò è la parte più fortificata. Il modello ideale della parte residenziale del mastio (modello che, naturalmente, varia da castello a castello) prevede tra ambienti principali: l’aula (la hall inglese), la grande sala che funzionava contemporaneamente da sala di rappresentanza e da sala da pranzo, un piccolo ambiente intermedio detto guardacamera o chambre d’apparat, e la camera da letto del signore.

Castello Caetani, Sermoneta (Latina) – Mastio.

Di quali mezzi dispongono gli assalitori davanti a queste enormi mura? Come attaccare queste cinte ogni feritoia delle quali poteva nascondere un uomo, permettendogli così di lanciare frecce da un arco o da una balestra? È vedendo le armi e le peripezie di un assedio che si comprendono meglio i diversi stratagemmi dei quali un castello si dota per la propria difesa.
Fino alla metà del XIV secolo, quando le prime armi da fuoco faranno la loro comparsa sul campo di battaglia di Crécy (1346), questi eserciti sono rimasti molto rudimentali. Intenzionalmente: nel 1139, papa Pasquale II aveva proibito l’uso della balestra, giudicata troppo pericolosa. Si trattava di un arco molto duro, dell’altezza di un uomo, adattato a un fusto fisso e azionato meccanicamente; non scagliava frecce, ma dardi corti denominati strali.

Balestriere – miniatura dalla Bibbia Maciejowski, XIII secolo

Le altre armi erano armi a mano: la lancia e la spada, che non servivano che per il corpo a corpo o per la carica della cavalleria; o ancora delle macchine assai semplici: il mangano, un’asta imperniata su un supporto che da una parte aveva la fionda per il proiettile e dall’altra numerose corde intrecciate, che venivano tese al momento del lancio; il trabucco, una sorta di enorme catapulta.

Modello di mangano.

Ricostruzione di trabucco.

Queste macchine potevano indebolire un po’ le mura, al massimo aprire una breccia. Ma, inutile a dirsi, lo spessore delle mura era più che scoraggiante per la debole potenza di queste macchine. Così si tentava piuttosto di abbattere le mura con trincee e gallerie. Le trincee venivano scavate ai piedi delle mura. Gli scavatori si avvicinavano, protetti da una tettoia allestita in tutta fretta su un carro, e cominciavano a minare la base delle mura; è per questa ragione che le si concepisce così rinforzate. Lo scavatore, una volta arrivato a praticare una cavità nelle mura, la riempie di legna, sterpi, legno resinoso, appicca il fuoco e se la dà a gambe. Sotto l’azione del fuoco la calce si scioglie, e le pietre si disgregano abbastanza perché le mura crollino.
Sono sempre gli scavatori a praticare, aggirando il fossato, delle gallerie sotterranee per penetrare all’interno del castello.
Generalmente, per impedire agli assalitori di avvicinarsi, si sono concepite, oltre alle mura, le caditoie. Si tratta di aperture praticate sul pavimento stesso delle torri o del camminamento di ronda. Da queste aperture, si potevano gettare sugli scavatori o sugli assalitori pietre e proiettili, che cadevano verticalmente, permettendo di colpire gli scavatori, o rimbalzavano sulla scarpata e raggiungevano gli assalitori. O ancora le caditoie erano costruite in aggiunta su delle basi che sovrastano le muraglie, un po’ come i balconi alle finestre nelle strade medievali. Così le torri del castello di Fenìs, in Valle d’Aosta, sono coronate di caditoie.

Castello di Fenis, Chez- Sapin – torre con caditoie.

Talvolta, ci si contenta di costruire in pietra delle mensole di sostegno sulle quali, al momento opportuno, si potevano costruire dei gabbiotti in legno o in muratura chiamati bertesche. Ospitavano dei soldati che potevano sia lanciare dardi attraverso le aperture praticate all’interno della bertesca, o ci si poteva anche servire delle bertesche come caditoie. Il castello di Gioia del Colle (Bari) conserva ancora, a difesa della sua Porta Sud, una bertesca in muratura.

Gioia del Colle (Bari), Castello – Porta Sud.

Beninteso, per non indebolire le mura non vi si aprivano finestre, ma semplici feritoie. Per poter sorvegliare l’orizzonte si costruivano talvolta, in corrispondenza degli angoli o dei contrafforti, delle torrette angolari, ognuna abitata da una vedetta.

Castello di Mazzè (Torino) – Torretta angolare nelle mura.

La porta è il punto più debole della costruzione. Il castello di Strozzavolpe (Siena) offre ancora un esempio del tipo più comune d’ingresso: il ponte levatoio basculante, che si manovra dall’interno (del primo piano, con l’aiuto di catene e di argani).

Castello di Strozzavolpe, Poggibonsi (Siena) – Ingresso principale.

Quasi sempre, tra la saracinesca e il portone, ci si trovava in una sorta di ambiente a volta nella quale si aprivano delle caditoie; poi una seconda saracinesca e un secondo portone sbarravano di nuovo il passo.
L’ingresso è incluso in una torre, ed è concepito in modo che il corridoio che costituisce l’entrata disegni un angolo retto. Questa disposizione permette di bloccare rapidamente il corridoio quando gli assalitori sono sul punto di penetrarvi. Infine, si costruisce, a protezione dell’ingresso principale, una torre fortificata che veniva chiamata rivellino.

Castello di Bentivoglio, Bologna – rivellino.

Quasi sempre, in queste costruzioni, è il primo piano quello che viene considerato abitabile; sotterranei e ambienti del pianterreno servivano da magazzini delle provviste. L’immaginazione romantica ha visto spesso, nei sotterranei del castello, le famose “segrete”, nelle quali è stato sufficiente ritrovare qualche osso d’animale per far nascere leggende da far tremare. Uno dei primi a protestare contro quest’assurdità fu lo scrittore francese Prosper Merimée, nominato ispettore dei monumenti storici da Napoleone III: “Quante dispense o depositi di legname sono state scambiate per terribili prigioni! Quanti ossi, scarti di cucina, sono stati visti come resti delle vittime della tirannia feudale!”, scrisse. Ciò non ha impedito che in molti luoghi le leggende siano sopravvissute e trasmesse da guide turistiche dotate più di buona volontà che di cultura. Ogni castello aveva allora la sua prigione, ma quelle che sono state scambiate per segrete erano in realtà delle dispense nelle quali conservare il grano o la farina, o delle cisterne, o ancora delle fosse di scarico, perché il castello prevedeva anche quelle; fu attraverso i pozzi neri che i soldati del re di Francia Filippo Augusto penetrarono nel castello di Chateau-Gaillard.

Castello di Mussomeli (Caltanissetta) – Cisterne.

Bibliografia:
Georges e Regìne Pernoud, Le Tour de France Médiévale: l’histoire buissonnière, Stock 1982, pp. 129-144.
Franco Cardini, L’Italia medievale, Touring Editore 2004.

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Buongiorno a tutti! Sono una paleografa con la vocazione per la scrittura e il pallino del Medioevo e delle sue storie. Amo la lettura, la buona musica, la poesia, la filosofia, l'arte, il cinema: in breve, qualunque espressione del buono, del bello e del vero. Nel 2011 ho vinto l'VIII edizione del premio letterario "Il racconto nel cassetto" con il racconto "Il Tamburo delle Sirene", pubblicato dalla Centoautori in "Il Tamburo delle Sirene e altri racconti" (2012). Ho collaborato con il sito di Radio CRC e con il giornale on-line "Citizen Salerno" e ora collaboro con la rivista on-line "Rievocare". Faccio parte del gruppo di living history "Gens Langobardorum" e come rievocatrice indipendente promuovo la Scuola Medica Salernitana, gloria della mia città. Nel 2020 ho pubblicato con la Robin "Mulieres Salernitanae. Storie di donne e di cura".
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